Intelligenza artificiale: l’uomo sulle strade dell’era digitale. Per un’etica dell’algoritmo

Quando si parla di Intelligenza Artificiale (IA), si parla sostanzialmente di algoritmi e cioè una sequenza finita di dati che produce altri dati che vengono rielaborati da un computer utilizzando un codice binario. Dalla loro potenza e sequenza deriva una cosiddetta “intelligenza” artificiale che abita i nostri smartphone, i sistemi informatici, la medicina, la produzione industriale; sta cambiando e cambierà il lavoro, il modo di relazionarci, di comunicare, di informarci e anche di fare la guerra. L’IA non è solo qualcosa che aiuta l’uomo a svolgere i suoi compiti, ma può anche sostituire l’uomo, lavorare al posto dell’uomo, prendere le decisioni al posto dell’uomo. Questo nuovo orizzonte ci conduce inevitabilmente a chiederci: cosa e come decide un’intelligenza artificiale? Quali sono i criteri che mette in atto per decidere e chi è il responsabile di quella decisione?

Stiamo vivendo, come spesso ha sottolineato papa Francesco, non semplicemente un’epoca di cambiamento ma un vero e proprio “cambio d’epoca” che sta mettendo in crisi i modelli culturali, i valori di riferimento che riguardano la realtà, l’uomo, e che spalanca orizzonti sconosciuti.

Parlare di etica delle tecnologie non significa voler arrestare il processo in atto ma tradurre in valore etico un valore numerico, perché quando parliamo di etica, parliamo di valori, dell’agire e delle scelte che devono necessariamente mettere al centro la persona, la sua dignità, la vita, il lavoro, il futuro delle nuove generazioni. Secondo Pelagalli, Padre Benanti ha ideato […] un neologismo, “algoretica”, recentemente inserito dall’Accademia della Crusca tra le nuove parole. L’algoretica è un codice etico pensato dagli uomini, ma “capito” e computato dalle macchine: valori etici integrati ai valori numerici che nutrono l’algoritmo, al fine di creare macchine che possano farsi strumenti di umanizzazione del mondo. Allora lo scopo dell’algoretica è di dare risposte sulla coesistenza della macchina con l’homo sapiens senza che essa minacci l’unicità e la dignità del soggetto umano.

Il cammino verso la digital age ci invita a percorrere nuove strade sconosciute, e ci aspetta una sfida decisiva: saper gestire questo cambiamento in una dimensione umana affinché non prevalga l’idea che l’uomo si macchinizzi e la macchina si umanizzi. La tecnologia non è mai neutrale, ha un valore ermeneutico, racchiude da sempre, dall’invenzione della freccia, della stampa, del computer, il bene e il male, perché racchiude in sé il suo ideatore, creatore: l’uomo. La nostra storia, la nostra evoluzione nel kronos è co-evoluzione uomo-artefatto, pertanto il paradigma dell’IA deve e dovrà svilupparsi in un orizzonte di cooperazione tra uomo e macchina così da evitare di avere un approccio radicale pro o contro. Afferma Edgar Morin, sociologo e filosofo della complessità: L’ottimismo ci acceca sui pericoli; il pessimismo ci paralizza e contribuisce al peggio.” Ogni cambiamento apre nuove occasioni e la responsabilità dell’uomo è saperle cogliere. Vivere questo tempo come Kairos, tempo opportuno e affidarlo a Dio significa lasciarsi guidare da Lui ed interpretarlo come tempo di opportunità anche nella crisi, nelle difficoltà. Il mondo digitale non può essere limitato all’ambito tecnico, tecnologico, meccanico, ma richiede un nuovo approccio interdisciplinare: dalla fisica alla chimica, dalla biologia all’antropologia, dalla filosofia all’etica, dalla matematica all’informatica: l’esito di questo passaggio verso la Digital Age ci è ignoto; la sfida che ci aspetta è saperlo gestire in una dimensione umana, perché, come afferma Paolo Benanti, “per stimare un numero basta la macchina ma per capire il significato serve l’uomo.

Il 24 gennaio 2020 si è svolto ad Avezzano il convegno Uomo on-life: tecnologia al servizio o persona bannata?, anticipando alcuni argomenti del Workshop che si è tenuto a Roma il 26, 28, 29 febbraio 2020, in Vaticano, realizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita, nella persona del presidente Monsignor Vincenzo Paglia. Nell’opuscolo del workshop si legge: «Siamo di fronte non solo a nuovi strumenti tecnologici, ma anche a cambiamenti che incidono profondamente sul nostro rapporto con il mondo. È importante comprendere quali sfide emergono nei settori dell’etica, del diritto, della salute.». Il Workshop è nato su richiesta di IBM alla Pontificia Accademia per la Vita per creare uno spazio di confronto su questi temi, testimonianza che c’è oggi un’esigenza crescente di filosofia ed etica nel mondo ipertech più di quanta non ce ne fosse prima. Questa crescente attenzione per l’etica a garanzia della dimensione umana ci spinge ad un sia pur cauto ottimismo. Obiettivo comune la priorità, il primato della dignità della persona umana per una nuova alleanza uomo/tecnologia, come attestato nel documento finale Rome Call for AI Ethics, un invito ad intraprendere un cammino condiviso e interdisciplinare per confrontarsi sulle nuove tecnologie, ponendo le basi per un’etica nell’era digitale, promuovendo l’assunzione di responsabilità da parte di organizzazioni, governi e istituzioni per una nuova RenAIssance, per un’intelligenza artificiale (AI) umanistica. Tra i firmatari della Call due dei grandi colossi del mondo informatico, IBM e Microsoft.

Le tre linee guida della Call sono: etica per l’inclusione e il bene di ogni singolo, della famiglia umana e della nostra casa comune; educazione per le nuove generazioni e per un uso consapevole della tecnologia; regolamentazione in fase di produzione delle tecnologie. L’IA deve essere sempre: trasparente, inclusiva, responsabile, affidabile, imparziale, sicura.

Dopo dodici mesi i firmatari hanno iniziato a fare i primi bilanci. Anche l’Ateneo romano La Sapienza ha aderito alla Call.  La Rome Call for AI Ethics è stata anche individuata dalla Stanford University come uno dei 5 topic più rilevanti in ambito AI del 2020 secondo l’AI Index Report, stilato annualmente da HAI, Institute for Human-Centered AI. (Pelagalli, L’intelligenza artificiale e l’etica degli algoritmi ). Cresce l’interesse e l’impegno per far conoscere sempre più e meglio il documento e si è aperto il dialogo con le religioni monoteiste per ribadire che tutti sono chiamati ad essere a servizio della famiglia umana; principio ispiratore della “chiamata” è l’inclusione, nessuno può essere lasciato indietro.

La tecnologia è una componente antropologica dell’esistere umano che non coinvolge solo la scienza e la tecnica, ma la persona in tutti i suoi modi di comprendersi e di comprendere il mondo. L’artefatto tecnologico è il modo con cui capiamo noi stessi e il mondo, trasformiamo noi stessi e il mondo ma è soprattutto il modo con cui lasciamo alle generazioni future delle competenze sul mondo.

Unità e unicità della persona: le nuove identità. Nell’uomo il corpo è un fattore costitutivo e non accidentale della persona. La trasformazione della persona in “infoindividuo” significa poter realizzare diversi modi di esistenza, diverse identità. Nell’era digitale non abbiamo più un’unica identità, ma diverse identità: per esempio un nome e un cognome di una casella elettronica o anonime nei social network. Se l’identità era il risultato di una storia personale che si costruiva nel tempo, oggi in pochissimi minuti possiamo creare una o più identità digitali che sono una sequenza di operazioni, di dati che producono altri dati; anche l’identità di genere è un dato che si può facilmente cambiare nel mondo digitale causando sempre più caos, confusione tra reale e virtuale fino al rischio concreto del completo degrado della dignità umana della persona.

Inoltre si stanno affacciando sempre più prepotentemente le derive del transumanesimo e postumanesimo che propongono un mondo perfetto dove l’uomo demiurgo si fonderà con le macchine, un mondo dove trionferanno la giustizia, l’uguaglianza, talmente omologato e depurato da ogni diversità che sarà abitato da una sorta di “morti viventi”: un mondo artificiale perfetto senza violenze né contrasti, che altresì si consumano nel buio della menzogna come bene racconta il film Matrix. Il transumanesimo è un movimento che mira a modificare l’uomo sfruttando la scienza ma soprattutto la tecnologia per potenziarlo, per aumentare le capacità umane e quindi superare i limiti biologici e il limite ultimo, la morte, quindi un’evoluzione autodiretta e non biologica. Potenziamento umano, super intelligenza capace di eccellere nelle prestazioni in quasi tutti i domini di interesse umano, veloce, resistente e di qualità. Un enhancement totale e radicale che considera il limite, la natura, la biologia nemici da combattere ed eliminare per realizzare una vita più felice, divertente, sana, bella, senza fatica, senza ostacoli da superare e anche impegnata intellettualmente ed “eticamente”. Il prefisso trans sta per transitional, cioè questo movimento si considera di transizione verso il postumano. Il postumanesimo non è semplice da inquadrare perché è piuttosto complesso, ma si può certamente affermare che per postumanesimo si intende quel movimento che guarda ad un futuro abitato da una nuova specie superiore, la specie postumana. L’essere umano modificabile a piacimento verrà definitivamente superato dal postumano: si tratta dunque del passaggio definitivo dell’umano ad una dimensione totalmente incorporea. Il fine di entrambi è abbattere l’ultima barriera, cioè la morte, superare quindi definitivamente la creaturalità, annientando la bellezza dell’unicità, caducità, finitudine della natura umana, dell’anelito al trascendente. In L’uomo bicentenario, Isaac Asimov racconta la storia di un robot con fattezze umane, perfetto e immortale, il cui ultimo desiderio sarà di essere spento, di morire. Affascinato dal mondo il robot comprende che la morte ha uno scopo: per essere ciò che vogliamo essere, occorre abbracciare anche la morte. Dunque, contrariamente a quanto pensano i transumanisti e i post-umanisti, la morte non è un difetto di fabbrica dell’uomo, ma qualcosa di unico e di spendibile. Tutto ciò che è riproducibile è esperimento, che può essere moltiplicato milioni di volte. La vita invece è esperienza ed è unica e irripetibile. Per Simone Weil la morte è la norma e lo scopo della vita, l’istante in cui penetra nell’anima la verità eterna.

La persona: essere in relazione. L’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio è essere essenzialmente in relazione che, per la sua unicità, è stato capace nel corso della storia di rivedere e modificare il suo comportamento in base al mutare delle necessità. A differenza di ogni altra specie, egli determina se stesso, le sue scelte, evolvendosi non semplicemente ed unicamente sulla scorta di fattori genetici e ambientali, ma grazie all’estro, all’immaginazione, alla capacità di trascendersi e di saper compiere il passaggio […] dal fenomeno al fondamento. (Giovanni Paolo II, Fides et ratio)

La crisi degli orizzonti di riferimento condivisi, l’affrancamento da legami di appartenenza, sentimentali, familiari, religiosi, culturali, la frammentarietà, ci portano paradossalmente a parlare ancor più di relazioni, perché ci accorgiamo quanto sia difficile, oggi molto più di ieri, avere la possibilità di costruire relazioni significative, perché se l’alter diventa alienus, l’uomo diventa a sua volta estraneo a se stesso, alienato. La tecnologia, il mondo digitale ci interrogano su inediti paradigmi antropologici e su un nuovo modo di relazionarci; ma le rapide trasformazioni che stiamo vivendo non soffocano le irrinunciabili domande di senso: come ripensare e realizzare l’essere in relazione con Dio, con gli uomini, con il mondo, come gestire i processi in atto. Il nostro modo di relazionarci è cambiato, sta cambiando, siamo costantemente connessi, on life, un termine coniato dal filosofo Luciano Floridi, secondo cui noi siamo probabilmente l’ultima generazione consapevole della differenza tra offline e online. In un vicino futuro questa differenza non si percepirà più e vivremo in una infosfera, cioè in un ambiente virtualmente condiviso. La tecnologia facilita le relazioni, possiamo parlare in tempo reale con persone che vivono nell’altra parte del pianeta, basti pensare che durante la pandemia da Covid-19  siamo potuti rimanere in contatto con i nostri affetti familiari, con gli amici, abbiamo potuto lavorare da casa, partecipare ad incontri, webinar, persino visitare virtualmente i musei. Il rischio però è che si aggravi l’analfabetismo affettivo dell’uomo contemporaneo: sempre più connessi ma sempre più soli, persi in una moltitudine di relazioni superficiali, liquide, facilmente erasable senza sentire la responsabilità. Afferma il filosofo E. Mounier: Lo sguardo degli altri è sconvolgente, scuote le mie sicurezze, le mie abitudini, il mio torpore egocentrico, è, pur nemico, il più sicuro rivelatore di me stesso.

Digital age e famiglia. Questo passaggio influenza anche la famiglia, che nella nostra società occidentale ha già sperimentato un passaggio del modo di essere in relazione: dalla famiglia patriarcale dove dialogavano le diversità generazionali a quella nucleare, isolata, schiacciata da ritmi lavorativi spesso inconciliabili con i ritmi e le necessità familiari. La famiglia ha una missione preziosa: aiutare i figli a raggiungere la piena statura umana. È il primo luogo dove si crea circolarità, nel dono reciproco si impara a comunicare, a prendere coscienza di sé, a rispettare l’altro, l’ambiente, si impara la cultura dell’incontro. Papa Francesco in Amoris Laetitia ci tiene a ricordare che la famiglia non è perfetta, vive la sua vocazione e affronta le inevitabili cadute, le fragilità che incontra lungo il cammino. I condizionamenti del mercato, la pubblicità propongono modelli perfetti e irragiungibili; anche la ricerca e la scelta della persona della propria vita è sempre più affidata agli algoritmi che dettano le coordinate per la nascita di nuovi nuclei familiari nell’inseguimento del desiderio di un partner ideale, di una famiglia perfetta, acquistabile on line e che prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. L’uomo post moderno teme la responsabilità, delega per necessità o per paura ogni aspetto della sua vita: l’educazione dei figli, le scelte politiche e sociali ai poteri forti, e così anche quelle fondamentali della sua vita personale le affida alla tecnologia rischiando di arrivare al paradosso: sarà un gruppo di programmatori a scegliere per noi la persona della nostra vita? Occorre allora accogliere l’invito di padre Benanti: siamo chiamati a rendere ragione del fatto che il corpo, la sessualità non sono un accidens, ma un linguaggio per dire l’amore. La tecnologia non può diventare un modo per gestire gli affetti, per non affrontare le difficoltà. La sfida è dare testimonianza credibile che l’amore si dona, e che la famiglia non è semplicemente una struttura necessaria per bisogni da soddisfare, ma è vocazione e fecondità. Allora la sfida è anche creare nuove alleanze delle famiglie aperte tra di loro e al mondo.

Educare: generazione Z, millenials, nativi digitali, screenagers. Scommettere sulla dimensione educativa significa dare ai giovani gli strumenti per diventare adulti e formarsi alla responsabilità: diventare chi sono stati chiamati ad essere, far sbocciare in ognuno il pienamente umano, far emergere il terreno buono; non importa se resta qualche sasso, qualche spina, il movimento scaturisce dalle forze antagoniste che richiamano alla responsabilità della scelta, accettando la sfida del buon combattimento. Fiorire significa sapere abitare il posto che Dio ci ha assegnato e dare perciò un senso autentico alla vita. Necessita legalità, per costruire il cittadino del futuro occorre regolamentare la tecnologia, in particolare il settore dei robot umanoidi e dei cyborg. Abbiamo bisogno di un nuovo slancio di pensiero per costruire uno sviluppo umano integrale. Le buone pratiche educative non omologano, ma sanno tirar fuori risorse e talenti, l’arte della maieutica socratica è oggi più che mai indispensabile. I giovani che padre Benanti chiama “argonauti digitali”, hanno come bussola lo smartphone e a loro si riconosce raramente la capacità di saper gestire questo rapido sviluppo: navigano in rete, imparano nuove lingue, sono autodidatti, sanno trasformare il deserto delle opportunità in oasi, si scambiano le loro esperienze attraverso brevi messaggi ed immagini. Sono consapevoli delle difficoltà di oggi e del futuro che li attende. Restano in silenzio, in una sorta di guscio di protezione, una forma di resilienza. Accompagnare i giovani nella crescita significa dare loro gli strumenti per non essere semplici fruitori ma capaci di decodificare i messaggi. Per educare necessitano flessibilità, umiltà, uscire da sé, empatia, coerenza e autenticità per trasmettere il gusto della conoscenza. La tecnologia interroga anche la pastorale della Chiesa: la sfida è comunicare la forza della Parola di Dio capace di far uscire dal gregge dei social, proponendo modelli alternativi agli influencer che possano essere un riferimento per riscoprire il proprio progetto di vita. La condivisione e le alleanze educative sono fondamentali per aiutare le nuove generazione a diventare adulti, ad uscire dagli idoli della confusione per poter riconoscere se stessi, l’altro e il creato, per guardare e vivere la realtà imparando a dire no a tutto ciò che impedisce all’uomo di diventare uomo, fino ad arrivare alla maturità che permette di saper discernere quali rischi e quali opportunità offre la nuova era digitale.

Il progresso è sviluppo quando governato da scelte etiche: medicina, giustizia, sicurezza. In campo medico è già in uso una app che si chiama GINGER.IO, grazie alla quale medici e infermieri possono monitorare da lontano il paziente. La tecnologia può aiutare a snellire il carico di attività quotidiane, facilitare il paziente che per esempio ha difficoltà a muoversi, ma la domanda è: possono gli algoritmi essere affidabili e decidere chi ha bisogno di cure oppure no? La medicina è fortemente influenzata dal pensiero transumanista: la ricerca biomedica oltrepassa sempre più il confine dai treatments, cioè le cure per diverse patologie, a veri e propri enhancements, cioè potenziamenti che modificano l’uomo. Si parla di miglioramento germinale, cioè noi non potremo solo scegliere le modifiche che vogliamo apportare su noi stessi, ma anche sulla riproduzione umana e sulle generazioni future, una tecnica che rievoca drammaticamente l’eugenetica americana degli inizi dello scorso ‘900, il mito nazista della razza ariana, senza tralasciare che se ci sarà questa possibilità di scelta, dovremo chiederci se sarà individuale, se sarà delegata ai governi ed alle aziende. E quali saranno le modifiche? Estetiche, funzionali, cognitive, fisiche? Si parla di “designer baby”, cioè di bambino su misura, un bambino perfetto senza malattie genetiche, ineccepibile anche nell’aspetto, nelle prestazioni intellettive e nelle performance sportive. Il problema che ne deriverebbe sarebbe di una portata enorme. Nell’ambito della giustizia un esempio sul quale possiamo riflettere è il cosiddetto risk assesments utilizzato negli Stati Uniti, programmi che assistono le corti per determinare le sentenze penali. Da una ricerca dell’agenzia indipendente ProPublica risulta che l’algoritmo è stato programmato con un criterio di disuguaglianza perché fa valutazioni in base a gruppi etnici, e i più penalizzati sono i neri. Gli algoritmi predittivi sono affidabili? Possono avere “pregiudizi” di calcolo? Sono protetti da copyright e quindi non sono trasparenti? In Cina dal 2020 è obbligatorio che ogni cittadino aderisca al Sistema di Credito Sociale, un sistema che raccoglie dati in base a 4 variabili. Dai dati ricevuti viene stilata una classifica pubblica, ne deriva un profilo di ogni cittadino in base al quale il governo decide se è affidabile per un determinato lavoro, per accedere alla connessione internet, per avere documenti per spostarsi e viaggiare, per accedere o meno alle scuole private. Il grande rischio che corriamo è che i dati non solo possono prevedere comportamenti, ma indurli e questo, come possiamo ben immaginare, avviene soprattutto per scopi economici e commerciali, con pubblicità mirate e anche in ambito politico. Riguardo la sicurezza possiamo fare un esempio: l’utilizzo sempre maggiore dei droni in campo militare impone, ci impone alcune domande: se un drone in un’operazione militare uccide civili, di chi è la responsabilità? La macchina può decidere se un’azione è morale? Gli algoritmi non sono apolitici, amorali come vorrebbero proporli, sono al contrario etici, perché è l’uomo che li programma e quindi devono essere sottoposti alla domanda etica; è necessario e urgente un discernimento a priori che non può essere fatto quando il prodotto è finito ed è già in rete. È responsabilità dell’uomo far pensare la macchina al servizio del bene comune, della famiglia umana.

IA e disuguaglianze. Altra questione urgente è la disuguaglianza che può derivare dallo sviluppo dell’IA. L’enorme quantità di dati che i colossi dell’high tech stanno accumulando non sappiamo come verrà utilizzata, in realtà non lo sanno neanche loro ma intanto stanno accumulando il nuovo petrolio da cui trarranno degli enormi profitti. Le disuguaglianze e i divari stanno emergendo anche in questi nuovi ambiti. Internet produce il cosiddetto digital divide, divario digitale tra chi possiede e chi non possiede le tecnologie digitali, tra chi possiede gli ultimi modelli dei prodotti tecnologici e chi si deve accontentare di quelli obsoleti, tra chi può e chi non può accedere ad internet.  Ma non solo: ciò che aumenta diseguaglianza è anche la digital inequality, cioè chi ha la possibilità di acquisire una buona formazione ha la possibilità di sfruttare a proprio beneficio la tecnologia, il cosiddetto capital enhancing. Ciò che fa la differenza non è solo la possibilità di accedere alle tecnologie ma anche il divario delle competenze che causano una radicalizzazione della disuguaglianza sociale. Ne fanno le spese le classi più svantaggiate del mondo occidentale, i poveri del pianeta, ma anche i disoccupati, chi non conosce l’inglese, gli anziani indipendentemente dal reddito, che assistono alla perdita del loro ruolo nella società come riferimento autorevole e restano esclusi dalla partecipazione alla vita sociale.

Se c’è algocrazia, cioè il governo della società per mezzo degli algoritmi che sono entrati in modo pervasivo nella nostra vita privata e pubblica, occorre che ci sia anche un’etica dell’algoritmo, l’algoretica. Necessita una governance a livello globale e per vivere un’autentica RenAIssance occorre percorrere le strade della nuova era digitale nella fratellanza e amicizia sociale, due categorie che, come dice papa Francesco in Fratelli Tutti non sono astratte, non sono sentimenti romantici, ma richiedono la responsabilità di saperle vivere concretamente, nella diversità e nella consapevolezza di essere fratelli uguali e diversi. Il primo documento sull’etica e l’IA ha tradotto questo richiamo concreto. Un nuovo umanesimo è possibile nella condivisione di una dimensione etica multidisciplinare sulla tecnologia, sulla famiglia, sulla scuola, sulle nuove generazioni e sugli anziani, sul lavoro. Se l’homo gestirà l’android, se la communitas abiterà l’infosfera, potremo scongiurare un orizzonte inquietante, nel quale assistere ad un degrado disumano, e ciò potrà avvenire solo se non ridurremo le scelte dei valori etici in favore dei valori numerici.