Lo steddazzu di Pavese e I pastori di D’Annunzio

Cesare Pavese: Lo steddazzu, da Lavorare stanca ( Einaudi, To, 1943)

L’uomo solo si leva che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest’è l’ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.

GABRIELE D’ANNUNZIO, I pastori, da Alcyone ( Treves, Mi,1903).

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

Anche se non viviamo più nell’antico tempo della comunicazione unicamente o prevalentemente orale di poesia non è possibile ignorare che anche oggi gran parte del fascino, oltre che del valore concettuale e creativo, di una composizione poetica risieda nelle sue qualità di suoni e di ritmi. Penso però che sarebbe errato (anche se molte volte avviene) che il lettore attuale si lasciasse avvincere solo dall’onda dei suoni trascurando la ricerca e il gusto della visione che nei versi appare attraverso le modalità di rappresentazione della realtà descritta. D’altra parte la poesia, come sappiamo, è un atto comunicativo interattivo anche quando si parla “in prima persona” e, in quanto tale, coinvolge il lettore al punto tale da farci dire che diventi proprietà, almeno emotiva e riflessiva, di  chiunque la legga. E allora non è, credo, errato chiedersi fino a che punto in una poesia si realizzi una connessione tra le qualità del materiale espressivo usato e il messaggio di sentimento e di pensiero che l’autore intende comunicare. A dire la verità, a me pare che una perfetta connessione non sempre si realizzi salvo che in sommi poeti come Dante (penso ai delicati suoni che accompagnano mirabilmente il senso della fragilità umana nel paesaggio purgatoriale dell’alba nel primo canto).

Molto più spesso accade di rilevare uno scollamento, magari a tratti ma presente, tra ciò che il poeta esprime e quello che intende dichiarare. E questo appare particolarmente e singolarmente evidente nei momenti in cui il poeta osserva e canta la vita degli umili.. spesso in un messaggio quasi di populistico intento realistico. Nella mente allora mi sorge un richiamo di confronto tra le modalità con le quali viene descritto un momento di vita del lavoratore a contatto diretto con la natura come è un  pastore in due componimenti da parte di due poeti lontani tra loro più che nel tempo nella visione socio-esistenziale : l’immaginifico D’Annunzio da una parte che si diffonde a rappresentare con apparente intento realistico e dichiarata empatia la vita degli umili conterranei con la poesia I pastori e dall’altra l’asciutto e severo esistenzialista Pavese che delinea un momento mattutino di vita del contadino pastore nella lirica Lo steddazzu. In entrambi i casi siamo di fronte a una rappresentazione che si presenta come osservazione della realtà di situazioni e atti quotidiani e, più o meno dichiarata, empatia verso i personaggi rappresentati. E tuttavia direi che è proprio l’andamento del ritmo e dei suoni più che le espressioni dirette a delinearci una radicale diversità di posizione dei  due poeti verso il mondo rappresentato.

Tutta la  poesia dannunziana citata effonde sicuramente quasi una osservazione amorosa del mondo pastorale al punto da condurre più volte il poeta all’uso dell’aggettivo possessivo in una quasi identificazione con i pastori. L’andamento ritmico dei suoni nelle due descrizioni della partenza dai monti e di arrivo alle spiagge della transumanza, tutto disposto lungo la linea spazio-temporale del cammino, sembra avere una pacatezza di osservazione e quasi documentazione realistica lontana dagli ardori del panismo presente nelle Laudi, spesso anche nella più cesellata Alcyone. Del resto rafforza questa impressione di empatia l’insistenza con la quale la descrizione si attarda su elementi lessicali di semplicità naturalistica, (i pascoli, il tratturo, gli stazzi e le fonti) rinforzata dalle frequenti consonanze (vanno verso …illuda la lor ) in liquida e spirante e dalle assonanze vocaliche di suono chiaro Sembra quindi che l’uso de suoni nella sapiente maestria dannunziana costituisca  lo strumento più adatto per calarsi con perfetta empatia nella realtà del mondo agreste nei due quadri non solo descrittivi ma anche emotivi, prima, dell’addio ai luoghi conosciuti, poi, del senso di esilio nel luogo estraneo della spiaggia. A una più attenta osservazione, però, qualche elemento sembra mettere in luce, più che una immedesimazione empatica, l’estraneità del sentimento del poeta dal mondo che descrive. E non è solo il lamento esplicito finale della lontananza dai suoi pastori a testimoniarlo ma la distanza concettuale dell’estetismo a rivelarlo. Le tonalità sommesse di levigata bellezza  stile liberty (del resto già avvertibili nel precrepuscolarismo intimistico di Consolazione dentro il Poema paradisiaco) con la quale l’abbondanza degli aggettivi (Adriatico selvaggio, cuori esuli, tratturo antico, erbal fiunme silente) svela, più che una contemplazione realistica della condizione umana del pastore concretamente connotata da fatiche e durezze qui del tutto ignorate, una utilizzazione consumistica che risponde a proprie esigenze estetizzanti di raffinatezza. Non si tratta solo di una  scelta estetica. Alla sua radice qui, come in certi atteggiamenti opportunistici anche nella politica del populismo attuale, si può ravvisare una utilizzazione consumistica del mondo popolare.

A questa estraneità mascherata da predilezione strumentalistica parrebbe quindi del tutto estranea la scarna secchezza di toni e suoni della descrizione pavesiana dell’alba del pastore nel componimento Lo Steddazzu. Il titolo stesso richiama un’area linguistica reale, quella calabrese, e sembra che il poeta  voglia introdurci direttamente in una posizione di scelta del realismo . Del resto tutta la descrizione di elementi ambientali ed azioni del personaggio, connotata com’é da azioni di totale essenzialità quale l’accensione del fuoco o la pipa che pende dalle labbra, sembra circoscrivere tutto nel campo della quotidianità popolare. E l’andamento ritmico non se ne rivela dissonante: il ritmo è lento, essenziale e asciutto ,prodotto com’é dalla sintassi paratattica di periodi dove le frasi subordinate sono senza avvolgimenti, precisazioni realistiche  di tempo e di luogo si leva che i lmare è ancora buio e di di spazio Dov’è il letto del mare. La visione direttamente rivolta al reale é del resto sostenuta da un lessico ricco di sostantivi per oggetti comuni e verbi per azioni semplici nei quali solo qualche sommessa allitterazione (sommesso sciacquio) crea increspature che non turbano la scarna dichiarazione di malinconia esistenziale. Ancora una volta  gli elementi ritmici ci spingono verso un mutamento di impressioni e di dubbio che sale. Già al verso dieci per tutta la prima parte della seconda strofa si passa, pur nello stesso ritmo lento ma con una incisività che sa già di disperata protesta, dalla descrizione alla valutazione, dalla registrazione delle necessità e realtà al giudizio e alla contenuta protesta.

Per ben due frasi il senso negativo domina in una scarna figura etimologica che va dall’avverbio al sostantivo non…nulla…inutilità. E anche se nella seconda parte della strofa le azioni allineate dalla sequenza della necessità e dalle durezze del vivere  (lo sguardo, l’accendere il fuoco, lo scaldarsi e l’avere sonno) trovano una perfetta corrispondenza in alcuni toni spenti del paesaggio (il buio, la stella verdognola dell’alba..), la conclusione supera la circoscrizione del sentire per entrare con il verso finale nell’abisso vuoto della disperazione esistenziale di fronte al nulla. A rafforzarne, ma forse anche a violentarne in un brivido emotivo l’asciutta disperazione, segue poi l’interrogativa di protesta che si chiude quasi in una tombale sensazione della iterazione priva di significato del vivere. E’evidente che siamo entrati in un campo di domande e sofferenze esistenziali molto al di là del cerchio delle costrizioni della quotidianità necessitata. Siamo allora nella stessa posizione di alterità e appropriazione strumentale del mondo degli umili che sembrava attuato da parte della poesia dannunziana, magari qui in una tonalità più filosofica che estetica? Non saprei definirlo con precisione. Ma ho qualche dubbio.

Certo é che seppure il poeta come creatore di immagini appaia sempre produttore di realtà che spesso travalicano l’esistente, in questa descrizione davanti a questo mondo del contadino pastore la poesia si pone in un atteggiamento paritario di empatica fraternità che, forse, esaspera ma non utilizza in un consumismo egotistico la semplicità popolare. Il ritmo lineare dell’ultimo verso con i verbi allineati del preparare la pipa e accenderla a me sembrano ritornare all’essenza democratica nel riconoscere la basilare importanza e il profondo anche se angosciante significato delle azioni essenziali dell’uomo, o meglio, degli uomini. Tutti. in quanto abitanti della stessa casa Terra .