La chiave tra le sbarre

HOWL, URLO di Allen Ginsberg

Recital di poesia e musica con: Vincenzo Di Bonaventura – voce; Emiliano Albani – tastiere; Roberto Pascucci – contrabbasso

Ospitale delle Associazioni – Grottammare

2 agosto 2024  h 21

“Spòsati, Allen, non prender droghe. La chiave è tra le sbarre, nella luce del sole alla finestra. Io ho la chiave”. L’ultima lettera della madre Naomi, Ginsberg la riceverà due giorni dopo la morte di lei. “Con amore tua madre, che è Naomi”.

È per lei – morta in manicomio e di manicomio – il Kaddish scritto tre anni dopo, pensato in un chiaro mezzogiorno invernale al Greenwich Village.

La lettura di Kaddish la tiene per ultima, il nostro Di Bonaventura, a suggello di  una poesia che è ribellione e urlo rabbioso o forse semplicemente amore nelle sue molte diverse forme. Come scriverà altrove, il peso del mondo è amore.

“Un modo di sentire lo spazio e il tempo che è romantico fino al midollo”* : e lo è certo per quella “disperata giovinezza romantica” alla ricerca incessante  di un altrove da sé e dal mondo.

Poesia da ascoltare, più che da leggere, col suo “verso lungo” (“verso misurato sulla durata del respiro fisico” sul modello prosodico di W.Whitman, ) che è anche immersione nel jazz: per questo stasera accompagneranno Vincenzo – attore solista, regista, tecnico del suono – le tastiere, il contrabbasso e il djembe.

Cavi, spine, casse, amplificatori, aste, microfoni in febbrili grovigli, rendono la gelida sala dell’Ospitale simile a una stazione Nasa prima di un lancio: ed è proprio in orbita che veniamo lanciati non appena l’incalzare del djembe, del contrabbasso, delle tastiere, apre la strada alla voce solista e a quell’ URLO psichedelico contro un’America ossessionata e maccartista.

Disperazione visionaria di un poema che “contiene moltitudini”: è questo il verso di Ginsberg, che un’ottica angusta ha a lungo etichettato come “poesia di protesta” ed è invece universale e autobiografica, specchio possente di destini collettivi e singoli, vorticare di un’umanità che il poeta fissa con occhio pietoso e asciutto.

La voce solista – che qui si fa anche grido e onomatopea, e battito possente di djembe –  percorre narrazioni di angosce e sogni, felicità e suicidi, di morte e vita che si fondono; e poderosa ne estrae l’inferno di un’umanità soggiacente alla città-mostro: così simile, nella visione allucinatoria del poeta, al Moloch divinità antica, incomprensibile prigione, sfinge di cemento e alluminio […] la cui mente è pura macchina, il cui sangue è denaro corrente, le cui dita son dieci eserciti, il cui petto è una dinamo cannibale.

Brulica di presenze, conversazioni, incontri, quel mostro di cemento e ciminiere, e destini vi si incrociano: quello dell’amico Carl Solomon cui dedica il poema, segnato dalla malattia psichica (Son con te a Rokland dove sei più matto di me, dove imiti l’ombra di mia madre, dove ridi di invisibile umorismo”); quello di Neil Cassady, incorrisposto giovanile amore, Adone di Denver, con la sua scapestrata vitalità. Ed è poesia corale: vi conversano gli amici, “battaglione perso di conversatori platonici […] sussurrando fatti e memorie e aneddoti e sballi ottici e shock d’ospedali e galere e guerre”, sognatori in incessante rincorrersi e fuggire.

Ma il mostro è anche il Moloch in cui sogno Angeli: perché l’approdo è insaziato bisogno d’amore e offerta d’amore; per tutti gli orrendi angeli umani, per ogni vita che è stata vita, capolavoro anonimo e potente; perché ogni cosa è santa, e sante sono le solitudini dei grattacieli e delle strade, e i nostri corpi, e i sofferenti, santa mia madre in manicomio…

Ed è poesia dell’amore struggente e rabbioso per la madre, nel Kaddish che dipana il ricordo di lei, e nel ricordo c’è il tuo tempo e il mio che accelera verso l’Apocalisse.

È amore la memoria di lei che gli balza incontro ovunque, fra gli edifici alti come il cielo e il cielo là sopra – un vecchio posto blu. Malmenata nel cuore, mente lasciata indietro. Naomi coi suoi occhi di Russia, i lunghi capelli neri coronati di fiori, il mandolino sulle ginocchia, Naomi con la sua paura di Hitler, i 50 shock elettrici più quelli insulinici; Naomi che si era ristretta nelle ossa, coi suoi occhi di lobotomia, coi suoi occhi, coi suoi occhi, sola. Naomi che non aver paura di me solo perchè torno dal manicomio – sono tua madre.

Ecco, riposa. Non c’è più soffrire per te. Lo so dove sei andata, si sta bene.

Un ultimo battito di djembe, un’ultima eco di contrabbasso, torniamo sulla terra e torniamo alla prosa: ma sono ancora qui con noi, sono dentro e ci resteranno, l’urlo, il kaddish, la ribellione, l’amore, la vita.

La poesia.

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“…pazzi o gelidi,

ossessionati da angeli  

o da macchine, /

il desiderio estremo è amore”

 A.Ginsberg, Canzone

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*[G.Conte, seconda di copertina – Jukebox all’idrogeno, a cura di Fernanda Pivano, ed.Guanda,1992 ]