Per parlare del matrimonio nel Medioevo occorre riferirsi sempre alla condizione delle donne in quel periodo. “È incontestabile che nel Medioevo la società fosse una società maschile, o per meglio dire, una società improntata all’uomo. … Le donne restano dominate dall’egemonia maschile non solo in campo culturale ma in tutti i campi della società” ( C. Opitz). La condizione delle donne era determinata da una serie di regole, prerogative e privilegi, nonché dall’appartenenza sociale; uno dei campi in cui le regole erano più stringenti era il matrimonio e, in previsione di questo, l’educazione. L’educazione era basata sulla rigida separazione dei sessi, che consentiva ai maschi di godere di maggiore libertà: se appartenenti alla nobiltà venivano educati a diventare proprietari o guerrieri, oppure “oblati”, donati, a un monastero; i ragazzi del popolo erano avviati al lavoro agricolo o artigianale. Le fanciulle erano destinate all’immobilità, poiché anche in casa vivevano come recluse e tutto ciò che imparavano lo apprendevano tra le mura domestiche. I rapporti fra uomo e donna erano basati sul principio: “l’uomo è al servizio di se stesso e di Dio, la donna è al servizio dell’uomo e di Dio”. La cultura maschile tradizionale, anche sulla base del testo di S. Paolo e dei Padri della Chiesa, che consideravano la donna portatrice di peccato e ritenevano il matrimonio un remedium concupiscentiae.
Secondo alcuni studiosi la condizione femminile migliorò rispetto al passato grazie al culto di Maria, che si diffuse in questo periodo. La verginità diventò la virtù per eccellenza, il cui valore sociale era fondamentale sia in caso di collocazione in un monastero, sia in caso di matrimonio, in quanto riguardava l’onore della famiglia e la “spendibilità matrimoniale” delle ragazze. L’educazione delle bambine mirava a far acquisire precocemente l’identificazione del proprio ruolo futuro; venivano date in sposa in età infantile (spesso a uomini molto più vecchi) e, in alcuni casi, dopo il “fidanzamento” andavano ad abitare a casa dello sposo fino al matrimonio. Nelle classi elevate il matrimonio veniva combinato tenendo conto dei vantaggi materiali e della convenienza sociale che ne poteva derivare. Molto importante era la dote, l’insieme dei beni mobili o immobili che veniva “dato” in occasione del matrimonio: nell’Alto Medioevo il marito (o la sua famiglia) donavano dei beni alla famiglia della sposa; più tardi erano dati alla sposa stessa, anche per assicurarne il mantenimento in caso di vedovanza. Più tardi era la famiglia della sposa a fornire la dote, tuttavia di solito questi beni erano amministrati direttamente dal marito e incamerati nel suo patrimonio familiare. Lo scambio dei doni aveva anche la funzione di rendere il legame più saldo; la donna, infatti, era tenuta al rispetto e alla lealtà verso entrambe le famiglie.
Nel Basso Medioevo (dopo il Mille) l’obbedienza al lignaggio si attenuò anche per l’intervento della Chiesa, che cercò di imporre un modello cristiano di matrimonio come rapporto monogamico, istituito da Dio, basato sull’ordinamento e sui valori stabiliti dalla Chiesa. Dopo il secolo XI furono infatti i chierici a stabilire i principi per il matrimonio e a vegliare che essi venissero rispettati. La considerazione del matrimonio come un sacramento si affermò definitivamente già all’inizio del XII secolo, mentre l’elenco dei sacramenti venne redatto il 1215 (IV Concilio Lateranense). La regolamentazione religiosa dell’istituzione matrimoniale appariva necessaria affinché l’unione non implicasse la lussuria: doveva assumere il carattere di indissolubilità, avvenire in condizioni di “purezza”, evitare l’incesto (la parentela già stabilita entro il 7° grado, venne ridotta al 4° grado), essere basato sulla fede e la benedizione della Chiesa. La benedizione della Chiesa divenne poi indispensabile dopo il 1563, quando si concluse il Concilio di Trento ed entrarono in vigore i decreti ivi stabiliti.
Anche le scuole giuridiche di Bologna e Parigi nel secolo XI si occuparono dell’istituto matrimoniale, sviluppando un serrato dibattito sul tema del consenso, se cioè bastasse il consenso del padre o servisse anche quello degli sposi, soprattutto alla luce delle possibili implicazioni economiche. Sul tema del consenso fu papa Alessandro III, intorno alla metà del Trecento, a decretare che “solum consensum facit nuptia”, imponendone anche la pubblicità. Tuttavia possiamo chiederci quale consapevolezza potesse avere una bambina al di sotto dei 12 anni, dato che le donne, specie nelle classi più elevate, venivano fatte sposare giovanissime, spesso in età infantile! Poiché per la mentalità del periodo il demonio assume spesso le sembianze di una bella donna, e comunque la donna era vista come naturalmente incline al peccato, si riteneva che il marito avesse il compito di guidarla e – se necessario – di “domarla” (Ivo di Chartres). La possibilità di punire riconosciuta al marito costituisce la prova lampante della subordinazione femminile, e dunque dell’asimmetria all’interno della coppia.
Negli scritti riguardanti le donne si possono trovare diverse classificazioni: spose, vedove, nubili; vecchie e giovani; ricche o povere. Molto interessante è quella proposta da Gilberto di Limarick, che, rifacendosi alla divisione tripartita della società feudale, afferma : “non dico che la funzione delle donne è di pregare, di lavorare o di combattere, ma sono sposate a coloro … , che lavorano e che combattono, e li servono”.
Nel ceto nobiliare di solito i genitori destinavano al matrimonio le figlie più belle e al convento quelle meno belle, cagionevoli di salute o affette da qualche difetto. Nelle famiglie più in vista, sia nobili sia alto-borghesi, il matrimonio era di norma basato sulla convenienza; e veniva preceduto da lunghe trattative tra i capi delle famiglie, preoccupati dell’interesse del casato piuttosto che dei sentimenti. Il matrimonio sanciva alleanze senza tener conto della volontà dei giovani, non solo delle femmine ma anche dei maschi, e anche quando si impose il principio canonico del matrimonio come sacramento, difficilmente l’interesse del gruppo familiare poté accordarsi con la libertà di scelta. Appunto perché l’interesse della stirpe era prevalente, si cercava di limitare la nuzialità per impedire la divisione del patrimonio. In ogni caso la donna era soggetta alla tutela del marito e, in assenza di questo, a quella del padre o dei fratelli. Soprattutto presso la nobiltà la famiglia ristretta (genitori, figli) non era autonoma, ma era strettamente legata alla parentela e agli antenati, la fedeltà era dovuta prima alla stirpe e poi alla famiglia coniugale; il dovere primario era, infatti, assicurare la discendenza. Tuttavia nell’ambito domestico si apriva a volte un piccolo spazio, per la nobildonna elevata: pur essendo soggetta al marito, la dama aveva alcuni “poteri”, delle funzioni che di fatto non intaccavano il potere del capofamiglia: portava le chiavi dei vari locali; vegliava sulle cantine, sulle provviste alimentari e sul guardaroba; aveva autorità sulla servitù e sulle altre donne del castello (figlie, cognate nubili); poteva partecipare insieme al marito alle competizioni cavalleresche. Era invece molto limitato il ruolo pedagogico della madre: il suo compito era essenzialmente quello di sorvegliare sulla condotta delle figlie, per impedire loro la partecipazione a feste e danze e la frequentazione di compagnie inadeguate; mentre al padre spettava la responsabilità di educare i figli maschi.
Nell’ambiente urbano, borghese, la famiglia ristretta aveva maggiore autonomia. Spesso il matrimonio veniva celebrato in casa dello sposo e alla presenza di un notaio, ma anche qui la dote aveva un ruolo importante, specie se si trattava di famiglie di mercanti o banchieri. Nel tardo medioevo il padre/marito usava annotare su un libro gli affari e la storia della famiglia, dove inseriva anche precetti morali riguardanti sia la cura della casa sia il comportamento della donna. Ne è un esempio Il Libro dei buoni costumi di Paolo da Certaldo, che prescrive di sorvegliare le donne di casa, “vane e leggere”, e incutere loro timore. Ci si preoccupava innanzi tutto dell’aspetto etico-religioso, infatti secondo questo autore vi sono quattro amori: quello della propria anima, quello dei figli, quello della moglie e quello degli amici. E nel De eruditione praedicatorum di Umberto da Romano (1193-1277) leggiamo che le donne non devono dedicarsi ai sortilegi, non devono essere sfrontate, devono apprendere quel tanto che basta per recitare il Salterio, le Ore e le orazioni per i defunti; devono parlare il meno possibile, e non devono dedicarsi ad attività frivole come il canto e soprattutto la danza.
Per quanto concerne le donne del terzo stato, nelle città l’incremento demografico del secolo XII indusse una trasformazione economica, che ebbe ripercussioni sui modelli di vita. Sorsero attività artigianali, spesso “a conduzione familiare”, dove trovavano impiego sia gli uomini che le donne e i ragazzi; in tal modo da un lato la coppia costituiva un nucleo economico importante, dall’altro alla donna veniva assegnato un ruolo attivo, sebbene sempre in condizione subordinata.
Nelle campagne, le mogli dei contadini erano chiamate anche a contribuire in vario modo all’andamento familiare: oltre al compito primario di generare e allevare i figli, dovevano tenere in ordine la casa, aiutare il marito nelle sue occupazioni agricole, confezionare i vestiti per tutti, badare all’orto e al pollaio, tosare le pecore. Il loro lavoro era pesante quanto quello degli uomini, e anche i bambini erano corresponsabili della vita familiare, infatti i figli più grandi accudivano i più piccoli quando la madre doveva svolgere qualche lavoro. Non esistevano occasioni di svago, se non in occasioni eccezionali come la mietitura, quando i contadini si riunivano a festeggiare il raccolto, o quando i più fortunati potevano recarsi presso un mercato cittadino.