Giovanna Albi, Di Felice Edizioni, Martinsicuro, 2025
Incontro e sintesi di diversi generi letterari cuciti in una veste da romanzo, Il castello di carte di Giovanna Albi è un ossimoro già dal titolo, voce parlante di una costruzione regale grandiosa e nello stesso tempo di una struttura fragile che rischia di crollare ad ogni refolo di vento. Si procede per episodi, racconti che potrebbero essere in sé conclusi ma che trovano continuità nella protagonista Chiara, le cui vicende spesso coincidono con quelle della biografia dell’autrice ma a volte se ne discostano per rappresentare la sua “vita sognata”, quello che avrebbe voluto essere e fare. Un alter ego, dunque, non sempre sovrapponibile all’Io di Giovanna. Non a caso, in exergo, ad introdurci alla storia è La vita sognata di Antonia Pozzi, morta suicida per non aver potuto realizzarla: O velo/ tu- della mia giovinezza,/mia veste chiara,/verità svanita-/o nodo/lucente-di tutta una vita/ che fu sognata-forse- . Nell’ultimo racconto, come a chiudere un cerchio, Chiara legge la bella Antonia, dieci anni dopo l’inizio della storia, già laureata in legge e affermata professionista avvocata, ha conseguito anche la laurea in Filosofia e qui si muove tra estetica hegeliana e intellettualismo etico socratico, razionalismo critico di Banfi e Zibaldone leopardiano, tra il solido vero e la speranza disperante.
La preparazione culturale di Chiara si intreccia continuamente con quella della scrittrice, laureata in lettere classiche e poi in filosofia, attraverso citazioni continue di carattere letterario, classico e contemporaneo, ma anche filosofico, psicologico e psicoanalitico. Chiara, infatti, come l’autrice, ha compiuto un percorso di psicoanalisi, pur non credendoci e anzi rifiutando l’approccio e l’omologazione degli psichiatri, che in genere si allineano verso la prescrizione di farmaci. Atteggiamento bifronte verso la scienza, a cui ricorre ma verso cui assume distacco e anzi sfiducia, quando essa pretenda di risolvere casi di crollo dell’io e dell’identità con la certezza del metodo positivistico, senza tenere conto dell’Es, l’Anima, la Psiche, che invece è indissolubilmente legata ai processi fisici.
La scrittrice talvolta rompe la finzione letteraria della narrazione in terza persona con interventi diretti in prima persona, commentando o chiarendo la storia, in un intrico complesso di vari livelli direzionali. Il codice stilistico di riferimento è senza dubbio la molteplicità, dal livello linguistico vario, a quello culturale variegato, alle personalità multiple di ascendenza pirandelliana sotto l’influsso del relativismo psicologico di James. A dominare è una certa pulsione verso scrittori che analizzano il disagio esistenziale, la vita sregolata e ribelle alla codificazione borghese, come “la poeta dei Navigli” Alda Merini; una sottile attrazione per artisti anticonvenzionali come la bell’Antonia (E la sua bici, le scalate della Grigna, i viaggi per l’Italia e l’Europa, i suoi abiti da montanara, ingoiati nell’orrido abisso del vecchierello infermo e scalzo di Leopardi) o che hanno realizzato il suicidio come appunto l’Antonia e Pavese, o che l’hanno meditato superando quell’oscura tensione con l’immaginazione oltre la siepe e la memoria della speranza passata. Già, Leopardi, molto presente nel romanzo come nei discorsi di Giovanna Albi, considerato da tanti critici un irriducibile pessimista, che ebbe però l’energia della ginestra di opporsi alle forze della distruzione resistendo stoicamente anzi approdando ad una forma di solidarietà civile e umana con la social catena. Al poeta recanatese è dedicato un capitolo dal titolo Il vitalismo di Leopardi in cui Chiara-Giovanna lo definisce: Uomo nella pienezza del suo essere, esattamente come Chiara, che aborre i compromessi, le vie di mezzo, l’arrogante falsità e cerca l’autenticità dell’essere, anche a costo, cosa che le capita quotidianamente, di rimetterci del suo. E come lui, Chiara-Giovanna non è confortata dall’approdo ad una fede, ad una religione storicamente definita, ma è tesa alla ricerca continua e tutta laica di un Assoluto cui ancorarsi, di quell’Infinito oltre la siepe, di cui -osserva il Russo- sono presenti tutti gli attributi di Dio.
Di Manzoni invece dice: è il più grande maniaco-ossessivo-compulsivo del Romanticismo europeo e non avrebbe potuto essere altrimenti per le estrosità del padre, che poi non è il padre, perché la madre, donna di facili costumi, se ne va intrecciando amori con mezzo mondo, esibendo la sua licenziosità amorosa. Oggi andrebbe in terapia. Ma queste cose, un insegnante ai suoi alunni non le può dire e parte la critica al sistema scolastico, al controllo sugli insegnanti e sulla loro didattica. E c’è anche un capitolo dedicato all’uomo-Don Abbondio condito di acuta e fine ironia, come gli altri riguardanti i vari tipi di uomini: l’uomo Narciso, l’uomo Achille, l’uomo cinico, i cui ritratti sono ironici e graffianti. L’ironia è un tratto distintivo della scrittura e dell’eloquio dell’Autrice, il salvagente cui aggrapparsi per prendere le distanze dalla materia incandescente della sua esistenza e della sua psiche. Tutti ripetono come una liturgia che la bellezza salverà il mondo, io sono convinta invece che ci salverà l’ironia. E forse anche rifugiarsi negli archetipi del mito, così presente nell’opera di Giovanna Albi.