Ho letto e sentito molte critiche sull’interpretazione della Duse da parte della duttile e intensa Valeria Bruni Tedeschi: diversa fisicamente, uno stile di recitazione troppo enfatico rispetto a quello quasi dimesso della Divina, troppe lacrime melense o toni tragici insistiti con il compiacimento di un ritmo lento e primi piani frequenti.
Voglio dire la mia, ma prendetela come l’interpretazione personale di una persona poco competente in critica cinematografica che analizza il film come analizzerebbe un testo letterario.
Io credo che il personaggio Duse sia stato solo lo strumento per raccontare il crollo dei miti di una generazione, anzi di un secolo che dall’ideale del Romanticismo e dallo slancio risorgimentale è passato alla visione realistica-positivista con l’esaltazione del progresso fino alla violenza iconoclasta del Futurismo e alla guerra che segna il crollo di tutti i miti. Qui si colloca anche il declino del mito dell’arte rappresentato dalla Divina, che in fondo è stata l’icona artistica dell’epoca precedente. Per questo secondo me il regista Pietro Marcello sceglie la fase finale e il tramonto della Duse simboleggiato anche dalle rughe dei primi piani impietosi.

Una scelta intenzionale, dunque, perché il regista vuole reinterpretare il mito Duse come il mito Ecuba è stato dalla Duse attualizzato con le vicende del suo tempo: la prima guerra mondiale, il fascismo e la crisi che sfocerà in un altro terribile conflitto. Una guerra inutile e una strage che hanno lasciato le mamme nel dolore della perdita di figli e mariti, e il ritorno ossessivo della celebrazione del milite ignoto conferma che di tanta arte e tanta vita rimane solo una vuota retorica celebrativa. Come oggi: il novecento ci ha lasciato il franare del mito liberale e capitalistico e di tanti miti che mettono in crisi anche l’aforisma ‘l’arte salverà il mondo’. Nessun mito ci ha salvato e siamo precipitati in altre inutili guerre e retoriche
