Postmoderno ed educazione

Per chi opera nel campo dell\’educazione è importante saper valorizzare i tratti positivi della cultura della nostra epoca e renderli preziosi collaboratori involontari della formazione della persona.

La nostra è una cultura \”postmoderna\”, termine che sta ad indicare una fase prevalentemente frammentaria e senza senso, caratterizzata da disillusione ideologica e disincanto1. Il ter­mine \”postmoderno\” rientra nelle periodizzazioni classiche che esaltano le differenze storiche per periodi massicciamente omogenei, con punteggiatura cronologica, in certa misura sempre arbitraria2. Ciò vale a maggior ragione per il \”postmoderno\”, espressione che non dice con precisione ciò che caratte­rizza la nuova epoca, bensì soltanto il superamento di quella precedente. La realtà contemporanea, ancora magma­tica e fluida, la sua ambivalenza cultu­rale ed etica danno luogo a pareri contrastanti e im­pediscono giudizi decisamente apocalittici o apologetici.

Sta di fatto che l\’espressione postmoderno è ormai entrata nell\’uso. Prevale in generale una valutazione negativa, ma è più opportuno cercare che coglierne le istanze po­sitive, soprattutto nel campo dell\’educazione, per cercare di interpre­tarle e orientarle verso più alte motivazioni.

Comunque si valuti la cultura postmoderna, essa reclama un surplus di impegno.

1. IL PENSIERO DELLA MODERNITA\’

Per giungere a comprendere nelle sue linee essenziali il postmoderno è necessario riportare innanzitutto il concetto di modernità ad alcune direttrici comuni, in quanto si tratta di una definizione complessa e variamente intesa.

Il termine latino modernus deriva dall\’avverbio modo, traducibile come \”adesso\”, \”recentemente\”; nel medioevo era usato in modo dispregiativo per rimarcare la distanza con gli antiqui, veri depositari dei valori eterni. Nel corso del tempo il novum ha però scalzato la superiorità della tradizione, assicurandosi un privilegio in quanto tale. I \”nani sulle spalle dei giganti\”6 sono risultati così più alti dei giganti stessi: la loro vista è in grado di cogliere più in là, la loro statura li rende veloci, in grado di muoversi più agevolmente, saltando anche di spalla in spalla.

La storia viene considerata come un incalzare di progressive e stratificate novità, secondo un andamento lineare, fisiologico, incontestabile, che ha culminato con la filosofia hegeliana nell\’identificazione del reale con il razionale, del melius con il novum. Anche la \”moda\” deve il suo nome a tale genesi e costituisce un chiaro esempio del carattere autoimpositivo del nuovo, a fronte del quale appare sorpassato qualunque residuo precedente. \”Modernizzare\” ha assunto così per noi la valenza di \”svecchiare\”, in riferimento a un processo di evoluzione di stampo positivistico, che ha animato tra l\’altro anche le avanguardie del primo Novecento. La novità è in questo senso una sorta di condanna per l\’uomo moderno, che appare così destinato alla perenne discontinuità.

Gli aspetti riconosciuti come distintivi della modernità ruotano intorno a tali tematiche, ulteriormente declinabili secondo alcuni tratti comuni:

  1. o la concezione finalistica della storia, considerata come una progressiva emancipazione dell\’uomo dal punto di vista economico, sociale, politico e culturale; 

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5 Nietzche, Benjamin, Heidegger possono essere considerati anticipatori del postmodernismo, i cui esponenti filosofici principali sono in Francia Bataille, Foucault, Derrida, Lyotard, Rorty; il più noto in Italia è Vattimo. 

6 Si tratta di un\’immagine ritratta inizialmente sulle vetrate della cattedrale di Chartres, in cui gli evangelisti Giovanni e Marco sulle spalle dei profeti del Vecchio Testamento simboleggiano un tributo da parte del Nuovo Testamento, poi ripresa nel XII sec

  1. o il mito del progresso, che già nel XVI secolo aveva condotto Bacone a immaginare la Nuova Atlantide come una società più giusta, sorretta da fantastiche innovazioni tecnologiche;

  2. o il legame scienza-tecnica, al fine di conoscere la natura per dominarla, e la conseguente identificazione della speculazione filosofica con l\’epistemologia quale teoria della conoscenza. Tramonta definitivamente la concezione della scienza intesa come conoscenza disinteressata: si afferma il solo paradigma quantitativo-sperimentale della rivoluzione scientifica, che conduce a estendere il processo di matematizzazione dall\’ambito della natura a quello dello studio dell\’uomo (antropologia, psicologia…). L\’esperienza oggetto di indagine scientifica, ossia la verità, viene a identificarsi con ciò che è sperimentabile, con la conseguente messa in ombra delle realtà non riducibili a tale metodologia sperimentale. Prevale un ragionamento di tipo ipotetico-galileiano che prevede la formalizzazione degli oggetti e la loro sostituibilità, astraendo dal contesto e privilegiando gli aspetti razionali e funzionali, come nell\’architettura \”modernista\” di Le Courbusier;

  3. o l\’universalismo della ragione, ossia della razionalità scientifica, che accomuna tutti gli uomini e sulla base del quale si sono costituiti gli Stati moderni, in linea con la prospettiva illuminista e sulla scorta dell\’ideale cristiano di uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio.

 

Gli avvenimenti che hanno segnato lo svolgersi del Novecento, unitamente ai cambiamenti di lettura della realtà da parte di vaste porzioni della scienza stessa (la teoria della relatività, il principio di indeterminazione di Heisemberg, il teorema di Goedel…) e alla rinuncia da parte di questa a modelli onnicomprensivi, hanno minato alla radice l\’ideale di progresso e comportato un conseguente ripensamento delle direttrici fondanti la modernità. 

A partire dagli anni Cinquanta circa si è diffusa infatti una composita corrente di pensiero, definita con il termine \”postmoderno\”, la cui comprensione risulta fondamentale per cogliere la diversità culturale dell\’oggi rispetto al pensiero della cosiddetta \”modernità\”, e le relative trasformazioni indotte nei processi di apprendimento, nella didattica e nel ruolo della scuola. Si tratta di una definizione che connota oggi molti ambiti culturali ma di cui, per sua stessa natura, non è facile cogliere i tratti costitutivi.

La postmodernità non è infatti relativa a una pura successione cronologica lineare, né a una semplice opposizione né a un semplice superamento. E\’ piuttosto una modalità differente di rapportarsi al moderno, sorta sulla scia di quella crisi che, dopo la seconda guerra mondiale, ha investito molti settori della cultura postindustriale, già anticipata dall\’annuncio nietzschano della \”morte di Dio\”.

Il postmoderno è dunque caratterizzato da un\’esperienza iniziale di crisi e di rottura, e si configura come una meta-riflessione filosofica della modernità su se stessa e sul proprio destino5, che non poteva non coinvolgere anche il mondo della scuola chiamandolo in causa quale soggetto attivo di tale ripensamento.

I fenomeni culturali e tecnologici che attraversano la società contemporanea sono il sintomo di profondi cambiamenti per i quali gli schemi interpretativi del passato si rivelano insufficienti. \”Postmoderna\” è una delle definizioni possibili per la situazione in cui viviamo. \”Postmoderno\” è così, negativamente, un modo per sottolineare l\’inadeguatezza della concettualità moderna a cogliere appieno la specificità del mondo contemporaneo; ma è anche, positivamente, la proposta di un rapporto con esso e con il suo passato non regressivo né nostalgico.

\”Postmoderno\” è il nome per un pensiero che accetta le sfide della complessità e della pluralità per avventurarsi nei rischiosi territori di frontiera tra etica e tecnica, politica e mercato, cultura e produzione industriale.

Sul piano culturale, si parla di postmoderno per indicare una fase prevalentemente frammentaria e senza senso, caratterizzata da disillusione ideologica e disincanto3. Il ter­mine \”postmoderno\” rientra nelle periodizzazioni classiche che esaltano le differenze storiche per periodi massicciamente omogenei, con punteggiatura cronologica, in certa misura sempre arbitraria4. Tali ope­razioni devono dare per scontato che i tentativi di cogliere le do­minanti culturali di un\’epoca non sono facili; tanto meno per il \”postmoderno\”, espressione che non dice con precisione ciò che caratte­rizza la nuova epoca, bensì il superamento di quella precedente, anche se nel bene e nel male «raccoglie i topoi culturali del tempo che viviamo»5. La realtà contemporanea, ancora magma­tica e fluida, la sua ambivalenza cultu­rale ed etica, im­pediscono giudizi decisamente apocalittici o apologetici. Sull\’argomento è inevitabile perciò che si scontrino pareri contrastanti.

Sta di fatto che l\’espressione è ormai entrata nell\’uso, ad esprimere una fase caratterizzata da disillusione ideologica e disincanto. Ma, come per ogni epoca storica, è opportuno leggere il postmoderno cogliendone le esigenze po­sitive, interpre­tandole, orientandole verso più alte motivazioni, contribuendo ad incidere sui suoi processi di trasformazione.

 2. IL PENSIERO DELLA POSTMODERNITA\’

La postmodernità nasce come l\’esperienza di una crisi che conduce a ridefinire i punti sopraesposti, a riconoscerne i limiti e le condizioni, in una sorta di \”critica della razionalità moderna\” che si può così riassumere:

  1. o perdita della fiducia nel progresso della storia e, più in generale, della storia in quanto \”abitata\” da un telos universale che legittima e offre spiegazioni forti, modelli onnicomprensivi. Non si tratta di opposizione e superamento della visione moderna poiché questi presuppongono comunque una sorta di continuità, mentre è proprio l\’idea stessa di continuità che viene a mancare, così come l\’aspettativa di un centro e di un fondamento unici. Le metafore del postmoderno sono infatti quella della rete, del rizoma, della complessità, del labirinto, della frammentarietà, dell\’instabilità;

  2. o consapevolezza che l\’evoluzione scientifica e tecnologica non corrisponda necessariamente a un autentico miglioramento delle condizioni di vita sul pianeta inteso in senso globale, unitamente al rifiuto del riduzionismo meccanicista di stampo cartesiano che ha condotto a considerare la natura quale puro oggetto di dominio da parte dell\’uomo;

  3. o rivalutazione del carattere veritativo di esperienze non riconducibili al paradigma metodologico sperimentale, come quella estetica, e in generale di una prospettiva qualitativa, situazionale, relazionale (metodi di ricerca partecipata, narrazioni).

Dal punto di vista politico il postmoderno costituisce la base di pensiero che ha accompagnato lo sviluppo dei movimenti a partire dagli anni Settanta – dell\’ecologismo, della rivendicazione delle differenze di genere, della multiculturalità – comportando il rifiuto dell\’uguaglianza come omologazione e della definizione territoriale degli Stati moderni. Si tratta di una prospettiva politica ambivalente, che si presta a una lettura, e a una critica, postliberale quanto postmarxista.

Dagli ambienti marxisti e progressisti il pensiero postmoderno è stato accusato di essere portatore di un neoconservatorismo funzionale alla società postindustriale dei consumi, e di nascondere dietro la presunta impossibilità di valori di riferimento la sua essenza di ideologia del capitalismo multinazionale, caratterizzato da una cultura dello spettacolo che riduce tutto a simulacro, svuotando di senso la realtà7. Si tratterebbe di un pensiero che ha abbandonato le prospettive di miglioramento e giustizia sociale che erano sopravvissute nel pensiero moderno anche se il prevalere della razionalità tecnico- strumentale ne aveva già minato il potenziale emancipativo.

Tutto nel postmoderno diventa cultura, nel senso che tutto diventa immagine: la distanza critica e la profondità vengono annullate in favore della visione superficiale. Il mondo si trasforma in ripetizione coattiva che perde il riferimento stesso alla realtà, una sorta di superficie quasi fotografica, come nelle opere di Andy Warhol. L\’arte – in particolare l\’architettura, in quanto più legata al mondo tecnico-economico e arte pubblica per eccellenza – costituisce il dominio preferenziale del postmoderno, e fa largo ricorso a elementi tratti dalla quotidianità.

Il postmoderno sviluppa infatti una commistione di linguaggi attraverso i quali l\’arte diventa produzione di massa, colmando lo iato tra cultura élitaria e popolare. L\’oggetto industriale deve essere artistico per poter entrare nel circuito commerciale: la moda, il design e la stessa pubblicità vengono così elevate di rango. Le immagini di Gandhi si trasformano, senza \”timor del sacro\”, in una televendita. Nel mondo postmoderno è tutto sullo stesso piano, sincrono, ridotto a pura spazialità senza tempo, in una sorta di \”blob\” estetizzante che tende a cancellare i nessi temporali. La pittura si libera dalla tensione ideale che aveva contraddistinto le avanguardie di inizio Novecento, invade lo spazio attraverso il ricorso a installazioni multimediali e supporti industriali, attinge dal passato con giochi di citazioni8 e intrecci multiplanari. Un particolare della quotidianità giovanile può essere illuminante: il disk jokey, che tradizionalmente \”metteva dischi\” di altri attuando una selezione e una scelta nella sequenza, oggi si è trasformato in un multimediale video jokey che \”suona\”, ovvero compie un\’azione della medesima portata culturale di un musicista, per la quale viene utilizzato il medesimo verbo.

 7 Cfr. F. Jameson (1984), tr. it. a cura di S. Velotti, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano, 1989; J. Habermas (1984), Teoria dell\’agire comunicativo, G. E. Rusconi (a cura di), il Mulino, Bologna, 1986; altrettanto radicale l\’analisi critica di J Baudrillard.

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8 In Italia si è diffuso verso la fine degli anni Settanta un movimento dall\’emblematico nome \”Ripetizione differente\”.

\”Le Tecnologie dell\’Informazione e della Comunicazione si sono inserite perfettamente in questo \”spirito-del-tempo\”: esse hanno consentito, secondo i detrattori della postmodernità, un\’irruzione violenta anche nell\’inconscio e sarebbero pertanto i simboli di una cultura che trasforma tutto in merce-immagine. \”Si attua così il passaggio dal soggetto alienato del mondo moderno al soggetto frammentato del postmoderno: un soggetto con un vissuto schizofrenico (secondo la definizione lacaniana della schizofrenia come collasso e frammentazione della catena significante) che però vive questa. condizione in maniera quasi euforica, sovraeccitata. Un\’euforia, un senso di libertà, derivati dal continuo ibridamento, dall\’oltrepassamento non solo delle frontiere ma del concetto stesso di frontiera.

Il reale e il virtuale si intrecciano, sfumano, si rincorrono, la realtà come termine di riferimento si dissolve\”9.

9 Per questa parte  mi sono ispirato a: http://www.dschola.it/2005/05/27/gandhi-postmoderno-il-pensiero-della-societa/, art. \”Ghandi postmoderno, il pensiero della società dell\’informazione\” di Laura Casulli

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 3. ASPETTI e Categorie della Postmodernità

 

1. Crisi della totalità teoretica.

Una caratteristica del postmoderno è il suo rifiuto della totalità come sistema tendenzial­mente chiuso, incapace di accogliere il nuovo senza incapsularlo in un sistema e negarne l\’autenticità. Franano le ideologie, le fedi e i valori, in un appiattimento in cui scompaiono le apparte­nenze e domina l\’indifferenza (al di là del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell\’ingiusto). Sembra segno di matu­rità la capacità di intaccare la certezza ingenua delle fedi, sino a perderle del tutto: nichilismo, insignificanza, relativismo, rigetto delle grandi sintesi, teoretiche, politiche e religiose, indifferenza per la metafisica e per Dio, non più combattuto, ma considerato superfluo, se non dannoso.

Lo sviluppo contemporaneo delle scienze e della filosofia spinge al relativismo. Si constata l\’impotenza del pen­siero a raggiungere la verità indipendentemente da chi l\’ha formu­lata. Si rinuncia quindi a credere nella capacità di attingere la verità in sé, quasi fosse situata in una zona esterna al soggetto. La verità non è un oggetto e il pensiero non è mai un neutro; è il pensiero di un io de­ter­minato, col suo carico di illu­sioni, precompren­sioni e proiezioni, convinto di captare ciò che è vero in sé, quando invece è in sé per il soggetto, ovvero è frutto di una universalizzazione operata a partire dall\’esperienza di chi astrae. La stessa insicurezza scuote i concetti di coscienza e autocoscienza, specie dopo la critica freudiana a tutte le consapevo­lezze che pretendono di affermarsi indipendentemente dalla non esplici­tabilità dell\’inconscio («l\’io non è più pa­drone in casa propria»).

La riflessione sul cono­scere ha assunto in pieno la strategia del \”sospetto\”, che il mondo con­temporaneo riserva, dopo Marx, Freud e Nietzsche, alle teo­rie di ogni tipo6. Coerenza vuole che le teorie che mascherano o semplicemente riproducono i limiti dell\’io, assolutizzandoli e ritorcendoli contro la persona, vengano rifiutate e riformulate.

Soprattutto viene rimesso in causa il criterio di verità: esso non può risie­dere nell\’ingenuità formale del sillogismo, né nella conformità ad una realtà esterna (dogmatismo), né nell\’assoluta libertà del soggetto (soggettivismo). L\’importanza del punto di vista di chi osserva (o anche la confor­mità dell\’oggetto alla prospettiva di chi stu­dia) è oggi sempre più sottolineata da una cultura che ha perso la fi­ducia inge­nua non solo nelle ideolo­gie, ma an­che nella avalutatività della scienza e la­scia che emer­gano i diversi con­dizionamenti del pensiero, quali la cultura, l\’esperienza, il gruppo etnico, la classe so­ciale, il clima. Soprat­tutto funziona da repellente l\’autoconfutazione delle teorie (effetto boo­merang), ossia il loro capovolgersi strada facendo in un\’arma contro l\’uomo. Tale disincanto può provocare l\’annullamento della creatività personale, quando il sospetto sistematico su tutte le teorie si tra­duce nella rinuncia a qualsiasi verità.

Sul piano politico, si registra parallelamente l\’abbandono delle apparte­nenze partitiche strette col crescere di intese trasver­sali, sia su obiettivi concreti e vicini, sia sui grandi universali, quali la qualità della vita, la pace, il rispetto per la natura, l\’attenzione ai più deboli.

Sul piano educativo si reclama una maggiore flessibilità teorica ed etica. Dal punto di vista della persona, infatti, risulta astratta e talvolta oppressiva l\’affermazione a priori di teorie pedagogiche di questo o quell\’altro \”grande\” il cui contributo, validissimo a suo tempo, si rivela oggi inadeguato. L\’unicità della persona reclama approcci sempre nuovi, nei quali cuore e intelligenza ricerchino strade più adeguate alle mutate condizioni. Del resto la persona matura, che fa della cultura un dono da restituire e non un potere da affermare, sa dubitare del sapere acquisito e soprattutto sa di non sapere. Avere e trasmettere il senso dell\’umiltà dell\’intelligenza e della parzialità delle conoscenze è soprattutto oggi (contrariamente all\’ideale dell\’insegnante tuttologo) un bagaglio indispensabile per affrontare la complessità crescente delle ideologie e il continuo sviluppo della scienza.

Anche dal punto di vista etico, per stare al passo con i tempi moderni senza cedere al nichilismo occorre una flessibilità che non neghi i valori ma l\’imposizione dogmatica e unilaterale di essi. Dogmatismo e relativismo vengono spogliati dei loro \”ismi\”, dal momento che alla persona, sul piano esistenziale spetta l\’ultima parola da dire nel rispetto dell\’autonomia e della libertà della coscienza. Accade così che nello stesso tempo, il rispetto della dignità personale rende impensabile la riduzione di tutti i valori al criterio soggettivo e rende altresì impensabile l\’assolutizzazione della norma, tanta più se circostanziata.

Tra queste difficoltà si muove l\’educatore cui spetta la genialità dell\’intuire, creare, risolvere in modo originale situazioni inedite. Così è stato per don Bosco e per gli altri mirabili esempi di una vocazione che corrisponde sempre ad un carisma personale. Valgano per tutti le parole del Messaggio del Papa per la giornata della pace 1995: «Questa formazione alla pace sarà tanto più efficace quanto più convergente risulterà l\’azione di coloro che, a diverso titolo, condividono responsabilità educative e sociali. Il tempo dedicato all\’educazione è il meglio impiegato, perché decide del futuro della persona e, conseguentemente, della famiglia e dell\’intera società».

 

 

2. La cultura del frammento.

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La cultura contemporanea non crede possibile un coordi­na­mento non oppressivo delle parti. Dal punto di vista sociale la mancanza di punti di riferimento comuni favorisce e giustifica il neo indi­vidua­lismo, giacché non sembra possibile trovare ciò che raccoglie il consenso di tutti. Ciascuno si muove non per appartenenze, ma guidato dalla sua individualità; non tanto come componente di una famiglia (parentale, razziale, culturale), quanto secondo la spinta dei suoi bisogni, del suo tentare di migliorare l\’esistenza facendosi largo nella selva della complessità sociale.

Paradossalmente, la cultura del frammento si afferma proprio mentre prevale la logica della globalizzazione e quindi dei macrosistemi a tutti i livelli, nelle scienze sociali e nelle interdipendenze internazionali di gruppi sempre più consapevoli di vivere in un mondo ormai \”piccolo villaggio\”. Perciò, l\’ambivalenza di questo tratto sta nella necessità di far convivere il suddetto rifiuto della totalità con la constatazione della interdipendenza sistemica, che incidenti come Cernobyl portano all\’evidenza. Ci si domanda come coniugare singolarità, piccolo gruppo, primato del locale, con il macrosistema internazionale; come riuscire a rendere il soggetto consapevole della sua posizione nella complessità che lo circonda, per poter riguadagnare il senso dell\’agire e delle mete per cui vivere e lottare, quando vengono disperse le in­tenzioni personali.

In tal senso, la cultura del frammento corrisponde all\’esigenza di piattaforme mobili di intesa, sempre rinnovabili. Il termine frammento, infatti, evoca l\’esigenza di identità de-costruibili e ri-costruibili, in una mobilità che è psicologica più ancora che geografica. Il moltiplicarsi dei frammenti (ambiti, gruppi, esperienze) rende possibile vivere diversissime situazioni esistenziali, pur restando al proprio posto, ma con rapidi spostamenti psicologici, affettivi, ideologici, religiosi, in sintonia con la velocità del mondo delle comunicazioni e della tecnologia. L\’uomo postmoderno ha l\’impressione di perdere il treno, se non è capace di abbandonare temporaneamente o per sempre il già fatto e adattarsi al nuovo. Dal punto di vista etico, ciò si esprime nel concetto di \”appartenenze corte\”, alludendo alla perdita di perseveranza e di fedeltà. Dominano l\’istante mutevole e le culture vincenti: «La scomparsa delle ideologie totalizzanti lascia spazio all\’effimero conoscitivo e al disimpegno pratico, alla lucida insicurezza e alle appartenenze corte»7. Ciò che Kierkegaard chiama «danzare il valzer dell\’istante» preannuncia la cultura del frammento che manca di progetti e di direzioni. M. de Unamuno tratta dello stesso problema nella Vita di Don Chisciotte, in cui riporta il se­guente dialogo, espressione della mancanza di orientamento e del conformi­smo di chi salta sul carro del vincitore:

«Donde vas vincente?

A donde va la gente

y donde va la gente?

A donde va vincente»8.

D\’altro canto, la mobilità culturale consente una maggiore capacità di sintonizzare con le diverse realtà sociali, di sentirsi liberi dagli attaccamenti, potenzialmente più capaci di favorire la convivenza dei diversi ed evitare l\’esplosione dei conflitti. Il bisogno di dare senso umano alla realtà si realizza non tanto sul piano teoretico quanto su quello prevalentemente etico nel quale si sviluppa una cultura della tolleranza e della solidarietà.

Mentre sono in crisi il moralismo, l\’ipocrisia, il compromesso, la retorica, la connivenza tra interessi e difesa del sistema, non si spegne l\’esigenza di autenticità e coerenza. Se le proclamazioni suonano stonate, è pur vero che si sviluppa una domanda di maggiore coerenza morale tra cultura comportamentale e cultura intellettuale, tra ciò che si crede e ciò che si fa, puntando sulla credibilità di progetti a breve termine, flessibili, adattabili alle nuove emergenze e diffidando dei grandi proclami e dei progetti a lungo raggio.

Dal punto di vista politico, la cultura del frammento fa difficoltà a trovare regole che possano avere una validità universale e dunque sostenere un\’autorità specifica. La pluralità dei sistemi equivalenti tende piuttosto a riprodurre lo stato di natura hobbesiano, in cui domina la contrapposizione tra le parti quando invece occorre comunque decidere: è necessario esercitare l\’autorità politica, pur senza averne la bussola.

Diviene difficoltoso il senso dello Stato. «Compito del pensiero politico – scrive Willms – sarebbe, anche nelle condizioni del postmoderno, mantenere pensabile un concetto sostanziale di politico, cioè un concetto di politico in quanto differenza: \”l\’obbligo allo Stato\”»9. I pensatori postmoderni come Baudrillard, Derrida e Lyotard non vogliono arrendersi ad un assoluto pluralismo dell\’anarchia e dell\’incomunicabilità. Pur non essendoci un accordo sui valori, resta l\’obbligo allo Stato. Il rischio è che se tale obbligo scaturisce solo dalla necessità di far fronte alla frammentazione, lo Stato acquista in potenza senza aver recuperato il senso.

Sulla base di questi principi, una educazione personalista deve guardarsi dall\’esaltare le culture e i soggetti forti, giacchè dal punto di vista socio-politico, il grado di civiltà e di democrazia di una nazione si misura sulla capacità di impegnarsi per i cittadini più deboli e, dal punto di vista umano e spirituale, sulla capacità di rispettare la persona anche quando mancano i presupposti dell\’autonomia e della coscienza, come uno dei compiti più urgenti della nostra società dell\’efficienza. Su questo capisaldo così si è espresso R. Guardini: «La persona può essere inconscia come nel dormiente; tuttavia esige già una tutela morale. E\’ pure possibile che non si attui perché mancano i presupposti fisio-psichici come nei pazzi e negli idioti, ma l\’uomo civile si distingue appunto dal barbaro perché la rispetta anche in un simile involucro. Può essere anche nascosta come nell\’embrione, ma già vi è col proprio diritto. La persona dà all\’uomo la sua dignità; lo distingue dalle cose e ne fa un soggetto…Si tratta alcunché come cosa in quanto la si possiede, la si usa, e per finire la si distrugge, vale a dire – per gli esseri viventi – la si uccide. La proibizione di uccidere l\’uomo rappresenta il coronamento della proibizione di trattarlo come cosa… ne dipendono la dignità, ma anche il benessere e alla fine la durata dell\’umanità»10.

Non è possibile educare – soprattutto nella cultura postmoderna – pensando di fare delle persone «a nostra immagine», perché sarebbe scadere nell\’addestramento ad una conformità ideale, sociale o statale. La pedagogia non può essere l\’arte di edificare una personalità addestrandola a certi compiti. Essa suppone anzitutto la capacità di contemplare ed ammirare il mistero irripetibile ed unico della persona che abbiamo di fronte, caso unico, esemplare non riproducibile. Perciò, benché si possa concepire l\’idea universale che sintetizzi le qualità dell\’essere umano, questa idea si infrangerà sempre di fronte al fatto che qui ed ora c\’è una persona unica. Precisa Mounier che l\’educazione non ha il «compito di fare, ma di suscitare persone: per definizione una persona si suscita con un appello e non si fabbrica con l\’addestramento. L\’educazione perciò non può avere per fine quello di adattare il fanciullo al conformismo dell\’ambiente familiare, sociale e statale, né di limitarsi a prepararlo per il compito o la funzione che egli esplicherà da adulto»11. Viene in luce la creatività di un rapporto individualizzato nel quale l\’adulto e il fanciullo vivono una coeducazione reciproca. Infatti, mentre il maestro cerca di comprendere e favorire le potenzialità del fanciullo, in questa opera socratica e materna, egli riceve il dono di una nuova umanità ancora inedita, di una persona che crescendo dice al mondo una parola non ancora detta. Il rapporto educativo promuove in entrambi la capacità di vivere e impegnarsi come persone.

Di qui scaturisce la critica puntuale ad un tipo di educazione che \”invece di preparare progressivamente la persona all\’uso della libertà e al senso delle sue responsabilità, la isterilisce… piegando il fanciullo alla cupa abitudine di pensare mediante delega, di agire per parola d\’ordine e di non avere altra ambizione che quella di essere sistemato, tranquillo e considerato in un mondo soddisfatto\”12. La capacità di dire io è correlata alla progressiva assunzione del proprio ruolo nella vita, della personale responsabilità nel consesso delle relazioni sistemiche generali, portando il contributo e lo spessore di una storia vissuta, di un equilibrio precario sempre da ricostruire, delle tensioni intra ed extra personali. «L\’uomo è un animale simbolico» diceva Cassirer13 perché riceve, elabora e trasmette una cultura, nella quale però egli non si inserisce come i pezzi ad incastro di un meccanismo fisico, ma selezionando e scegliendo i valori preferenziali. Porre l\’accento sull\’esistenza, sull\’azione, sulle scelte, significa sottolineare anche il carico di responsabilità etica personale che ciascuno assume con la vita. Favorire lo sviluppo di tale responsabilità etica è il compito dell\’adulto, compito che non può essere una pura esecuzione di impegni, di programmi, di teorie poiché è radicato nell\’essere protesi a far essere l\’altro, a capire, amare e favorire la persona dell\’altro.

  3. Il pensiero debole

 

Il rifiuto degli assoluti porta ad accontentarsi di onde corte, di riflessioni legate alle urgenze esperienziali. È la debolezza di chi avverte come irrisolvibili e superflui i problemi teorici legati ai \”modelli di profondità\” (modello metafisico di essenza e apparenza; freudiano di la­tente e manifesto; esistenzialista di autenticità e inauten­ticità; marxista di alienazione e riappropriazione; ermeneutico tra significante e significato).

Dal momento che la frantumazione del tessuto sociale corre parallelamente alla frantumazione dei riferimenti etici, ogni gruppo o corporazione assume come riferimento le sue regole e la sua logica, anche se spietata. Il sistema autoreferenziale conta più dei diritti e della dignità della persona. L\’indifferenza si diffonde e si caratterizza come disattenzione al senso del dovere, in rapporto alla cittadinanza e alla professione, tutti vittime e sfruttatori di una burocrazia priva di credibilità.

È una cultura simboleggiata dal rizoma, fusto che mette radici superficiali, ma che esplodono in ogni direzione, che non arrivano a visibilità e che corrispondono appunto ad una cultura senza valori di riferimento. Anche quando il rizoma viene tagliato non smette di generare imprevedibili nuovi orientamenti della sua espansione vitalista.

Dal punto di vista linguistico e a livello giovanile, si diffonde la rudezza del linguaggio, che utilizza solo dichiarazioni indispensabili, liberate dalla catena dei significati e della sintassi, un linguaggio semplificato non al modo di quello per l\’infanzia, bensì con una trascuratezza voluta, che indigna i cultori delle lettere. Il rifiuto di organizzare con coerenza linguistica l\’esperienza, parallelo al pensiero che si accontenta del cumulo di frammenti, va collegato a quell\’individualismo metodologico, per il quale ciascuno si legittima a cercare sue soluzioni, a costruire mutevoli schemi di comportamento, a servirsi della verità (non servirla), proprio perché se ne è delegittimata l\’esistenza.

Si riaffaccia la domanda sulla possibilità stessa di pensare: come far convivere il collegamento – e ciò implica sistematizzazione della realtà in schemi – e i frammenti, in un\’epoca che non solo considera inadeguati gli schemi ideologici tradizionali, ma pensa anche che sia bene non averne, giacché ciascuno, nella situa­zione esistenziale, deve potersi muovere senza riferimenti a schemi fissi.

Anche per questa categoria interpretativa del postmoderno riscontriamo la suddetta ambivalenza: il vuoto di riferimenti sistematici favorisce da una parte il trionfo delle mode e del relativismo, dall\’altra è anche terreno fertile per più umili riprese di un pensiero meno egemone e ambizioso, più attento ai rapporti che alla sua interna razionalità. In altri termini, si valorizzano frammenti di verità, mentre si diffida di ogni ricorrente tentazione di polarizzare la contrapposizione tra frammento e totalità o di costruire pseudo-sintesi di sostegno alla gestione politico-autoritaria della realtà. Solo la piena valorizzazione del frammento consentirebbe una rapportualità non coatta. Non si può frettolosamente pensare che il postmoderno scade automaticamente nell\’effimero, nel disimpegno, nella rinuncia a parlare e conoscere, senza tenere conto della sua più profonda accettazione di modi plurimi di conoscere e comportarsi, secondo i moduli propri delle diverse realtà personali come delle diverse discipline scientifiche, filosofiche, artistiche, religiose.

Mentre viene sottratta fiducia alla razionalità forte, che guida in maniera sicura i comportamenti, si parla di \”razionalità debole\” la quale «non produce potere ma offerte di senso, \”produce\” autonomia, consigli per viaggiare in mondi fisici, psichici, disciplinari con il massimo di disponibilità dei propri pensieri, sentimenti e azioni e quel minimo di potere sugli altri e sulle cose indispensabile alla propria autonomia»14. Contro la razionalità forte e universale, il pensiero debole preferisce restare legato alla situazioni, alla storia contingente e parziale; contro la Ragione pura, che procede per suo interno moto e non incontra limiti esterni dovuti ai contesti, alle logiche delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto, psicologia), perché è context free, la ragione pratica mostra l\’impossibilità di isolare il pensiero dai suoi condizionamenti e dalle interferenze del contesto: ogni ricerca è sempre impura, nel senso che è comprensibile nel contesto di un quadro storico, come sottolinea Gadamer. Ne deriva che, pur potendo giungere ad un pensiero ed un\’etica universali, essi non saranno mai universalistici e normativi.

Nella cultura contemporanea l\’io è inteso come valore assoluto, la sua libertà diviene norma spesso dissociata dal rispetto dell\’altro. Ciò sia nelle forme più eclatanti dell\’individualismo esasperato (libertinismo), sia in quelle più rispettose della libertà altrui e tuttavia ancora imbrigliate in una socialità puramente contrattuale o in una interpretazione della relazione sociale puramente formale. Al contrario l\’ispirazione personalista mira a \”Rifare il rinascimento\”, promuovendo la dimensione comunitaria della persona, dal momento che attribuisce il fallimento dell\’umanesimo rinascimentale all\’eccesso di individualismo e alla non-curanza della comunità. Su questo poggia la distinzione tra individuo e persona.

L\’altro rischio della cultura contemporanea che contrasta con una pedagogia personalista è la tendenza alla massificazione nella quale la collettività ha sempre l\’ultima parola sull\’uomo. Rispetto alla tentazione collettivista, che nella comunità-tutto prepara esiti totalitari, il personalismo sottolinea che si può parlare di collettivo solo se non si perdono di vista i singoli membri come persone libere e responsabili. «Il fanciullo è un soggetto, non una Res societatis, una Res familiae, o una Res ecclesiae, ma non è nemmeno un soggetto puro o un oggetto isolato. Inserito in una collettività, egli si forma per mezzo di esse ed in esse»15. La discriminante resta la persona, giacché «la vera comunità è data da una comunità di persone. Tutte le altre non sono che una forma dell\’anonimato tirannico»16.

Tra i due estremi dell\’individualismo e del collettivismo, l\’ispirazione personalista sottolinea l\’importanza della paziente costruzione di comunità viventi. All\’interno dell\’esperienza comunitaria il movimento della persona verso gli altri non è facoltativo, ma indispensabile alla dialettica di formazione del sè. L\’altro consente all\’io di riconoscersi e lo stimola continuamente a crescere. Lo sguardo altrui nella filosofia della persona, offre la possibilità di superarsi, di uscire dal sonno esistenziale dell\’in sè, mettendo in questione ed anche ostacolando la concentrazione dell\’io su se stesso. Ogni volta invece che la persona è chiusa all\’altro, si difende o rifiuta la comunicazione, perde anche se stessa, l\’alter diventa alienus e a sua volta l\’io diventa estraneo a se stesso, alienato17.

La persona non si costruisce contro gli altri (homo homini lupus), per mezzo degli altri (strumentalizzazione), senza gli altri (indifferenza), ma apprendendo a spegnere la centralità dell\’io nella donazione al tu. Per superare la tendenza a ripiegare su di sè, che fa assaporare un\’amara sensazione di nulla, la persona deve tendere a realizzare relazioni profonde fino a fare l\’esperienza della comunione. Una moderna pedagogia favorisce al massimo la dinamica dialogica della persona, il suo crescere con e per gli altri (mitsein), in cui ciascuno realizza insieme la sua realtà etica e metafisica. La morale allora diviene cura di sé e dell\’altro, sottraendosi al moralismo di un dovere puro che sottovaluta il ruolo dell\’altro e delle circostanze, fino a giungere all\’esaltazione dell\’anima bella, prometeismo che forgia forse degli eroi, ma non lascia lo spazio alla reciprocità.

L\’educazione a vivere relazioni interpersonali significative si alimenta dell\’amore in qunato essere autentico della persona: \”L\’amore – scrive Mounier – non si aggiunge alla persona come un di più, come un lusso: senza l\’amore la persona non esiste… senza l\’amore le persone non arrivano a divenire tali\”18. L\’amore non è dunque un attributo del carattere o una modalità di realizzazione, ma la possibilità di esistere.