I volti “vissuti” di Marco Novati

Quando Novati cominciò a dipingere scelse e privilegiò un genere che ereditava una posizione scomoda per sua natura e cioè il ritratto. Lo fece a bella posta, come studioso dell’animo umano colto in atteggiamenti quasi mai lieti. Un modo di fare arte senza paraventi.

Certo non solo crudi ritratti, ma, da buon veneziano, certamente dipinse anche scorci della sua irripetibile città e si concesse qualche trasgressione, quando, sia pur raramente,  ritrasse belle donne in posa, contravvenendo così al suo “antigrazioso” programmatico.

Siamo intorno agli anni venti del secolo scorso e il nostro artista, dichiaratamente autodidatta,  si avvia verso l’impressionismo, proprio per staccarsi dal cliché del ritratto tradizionale, caro all’ottocento.

Sulla scorta di Casorati, che, similmente a lui,  aveva dichiarato apertamente di  essere sazio del “piacevole”, Novati cerca, a bella posta, soggetti particolari,  come vecchi avvizziti, mendicanti, ébeti; indugiando, con un realismo tutto suo,  sul deterioramento dei corpi, interpretato, però,  con molto sentimento umano. 

In tale direzione osserviamo il ritratto de “L’idiota” (proprietà privata) e andiamo alla ricerca del perché questo interessante artista riservi, pur nella drammaticità, una tenerezza strana ai suoi soggetti.

Li protegge dallo scherno, ecco cosa fa. L’ebete è  seduto ed immoto, la sua menomazione mentale non traspare in modo aggressivo. E’ come difeso da un’affettività riservata  e latente. Il tratto  deciso ci regala di lui, peraltro, un’immagine molto meno impietosa di tanti altre.

Facciamo seguire “Le erbivendole” e “Il grande concerto”, olii di vaste proporzioni, della proprietà Rizzoli.    

Il temperamento del pittore agisce come una punta di pugnale e lo stimola a ritrarre gente derelitta, sulla quale la vecchiaia ha infierito, gente anonima, su cui egli passa con un brivido di commozione.   Abitanti  della sua Venezia,  uscita dal  primo, disumano dopoguerra  con tanta sofferenza e tante illusioni.  La dipinge attraverso i suoi “eroi alla rovescia”, con un furore che urla “ aiuto!”.

Lo si vede nello smarrimento rassegnato delle due anziane erbivendole, nella loro abitudine a patire.  Una delle due ha un occhio vistosamente leso. Che vita avranno vissuto, o meglio, cosa avranno capito della vita, sembra chiedersi Novati.

E poi il “Grande Concerto” del 1950, di proprietà dell’Associazione Industriali di Venezia, già tanto eloquente da solo.

Forse il grande concerto è stata la vita stessa dei due protagonisti, così sciatta come il loro atteggiamento. Eppure hanno in mano degli strumenti musicali,  dunque li hanno almeno, anche se solo un poco, studiati. Hanno avuto la capacità di applicarsi ad essi. Ma ora il flautista dorme di grosso appoggiato al suo braccio mentre l’altro suonatore regge  una chitarra con  piglio ancora forte sulle corde  ma anche lui è molto accasciato.

Il tratto di Novati qui diventa poesia, prende forma quel verismo impressionistico davvero suo, la scena suscita una commozione di tenerezza inconsapevole e immediata. L’uso del colore attinge ad una sapienza  che fa diventare questo elemento, protagonista del quadro.  Lo si coglie nel celeste pacato dell’abito indosso al suonatore addormentato  e nel verde magico del cappello e dei pantaloni del chitarrista che gli fa da contr’altare,  mentre lo sfondo gioca su toni di marrone di un tenero tangibile.

Per due volte Novati espone alla Biennale della sua  Venezia, più o meno negli anni 30. Mostriamo ora due delle opere che vi ottennero successo.

Non di ritratti si parla ma di scene altamente drammatiche, entrambe intitolate “Macello” e custodite nella Galleria d’Arte Moderna di Venezia.

In esse c’è un qualcosa di primordiale che sembra evocare la capacità dell’uomo di essere spietato e indifferente, feroce e tranquillo in quel sopraffare l’animale che nulla può per opporsi alla sua sorte.

Nella prima, quello col bue vivo in primo piano, il verismo è affidato ad una scena forse ritrovabile nella realtà, un luogo approssimativo dove si opera una mattanza  arretrata, dove l’animale già abbattuto è lasciato in un angolo, neanche appeso per il dissanguamento e fasi successive, sicché la sensazione che dà è tra l’atemporale e il surreale.

Nella seconda tela, Il luogo è più o meno lo stesso, ma il caotico affollamento delle fasi di  macello genera uno sgomento che parte da dentro. Questo colpire “dove casca casca” in un  caos sconnesso e negativo in ogni senso, compreso quello relativo all’utilizzo di quanto si sta facendo, fa pensare piuttosto ad una guerra folle e insensata. Quasi quella generata dal disordine completo di certi periodi della storia umana, dove  si fanno cose che neanche si sanno fare né si producono esiti dall’averle fatte.

Questo é Marco Novati, vissuto a Venezia tra il 1895 ed il 1975, un verista che ha lasciato un segno  ben degno di essere osservato.