La linea cronospaziale nella cittadinanza attiva di Dante

II parte

Ovviamente, siccome tutta la commedia è avvolta da un pessimismo che potremmo chiamare gramscianamente della ragione ma anche dall’ottimismo provvidenzialistico della volontà, Dante non si ferma all’amarezza polemica o, men che mai, a una rancorosa protesta personale. E’ al canto XVII che affida il suo orizzonte di salvezza e di riscatto suo ma, soprattutto, del suo mondo. In questo canto è più che mai sorprendente la sua inarrivabile capacità di intrecciare armonicamente il personale con l’universale e di legare l’esigenza intellettuale a quella dell’intensità affettiva. Di richiami a fatti e sentimenti individuali il canto è pieno, e non solo nelle varie fasi del dialogo con l’antenato che, come è stato da più commentatori rilevato, diventa sempre più un portavoce, un alter ego del poeta stesso, ma nell’ambientazione contestuale stessa già ad apertura. Siamo di fronte a una costruzione verbale intensamente umana disseminata di una trama di richiami ai rapporti affettivi a partire dalla citazione del mito materno di Climene per passare, attraverso l’esortazione di Beatrice, a rendere evidente “la vampa del disio” fino all’appellativo ”piota”  con il quale Dante pone la prima domanda a Cacciaguida, un appellativo che evoca  la sostanza indomabile dei legami naturali. E nel suo richiedere alla sapienza dell’antenato di conoscere un futuro a lui ignoto, già comincia a trasparire tutto il peso di quella sofferenza e di quella solitudine nella sofferenza che ha segnato il suo cammino di exul immeritus. Lo si sente nell’avvertimento di condizioni anche se narrativamente ancora sconosciute certo intuite come “colpi di  ventura”. Sarà certo Cacciaguida nella sua articolata risposta a scrivere su quelle pagine ancora bianche le ripetute immagini delle sofferenze che il pronipote dovrà affrontare. Rappresentano dolori dettagliatamente esposti sia nell’ evocazione delle trame contro il suo desiderio di ritorno, sia nella contestazione alle manipolazioni devianti della politica del papato fino alla descrizione che si distende amaramente e con dolore ripetuto nella triplice anafora delle umiliazioni dell’esilio. (vv55-66). Sono  ovviamente qui rappresentate con il sostegno di dolori già patiti nella realtà esistenziale tutte le amarezze dell’esilio ed è avvertibile in tutte le espressioni il coronamento doloroso della solitudine con la separazione non solo dalla città ma perfino dagli altri esuli nell’analisi impietosa sui tentativi di rientro nei  vv. 61-69-.

Non si tratta però  solo di un  doloroso lamento, l’analisi dell’esilio è qualcosa che Dante proietta nella sua indomita passione civile sul destino della società del suo mondo anche per il futuro; lo dimostra anche l’accorta quasi lezione di Cacciaguida di progettualità politica nel ricercare le alleanze con la raffigurazione delle personalità dei principi scaligeri Bartolomeo e Cangrande. Tuttavia attraverso il discorso di Cacciaguida il poeta va ben oltre la rassicurazione e il consiglio perché proietta le sue parole in una dimensione temporale illimitata  che la locuzione “più in là” (v 82) allunga ben oltre le dimensioni temporali della vita terrena. Potrebbe esserci qui la chiusura luminosa di un discorso di guida paterna ma, sorprendentemente, Dante ancora una volta inserisce una intensa dialettica tra la debolezza umana e il destino di luce assegnato con il dono della libertà del Creatore. Non tace l’espressione dei suoi dubbi o, meglio, del suo dilemma di intellettuale tra la ricerca della quiete e del consenso e la severa missione della sua attività. La risposta di Cacciaguida ha il tono incisivo e solenne di epigrafi destinate a rimanere intatte nel tempo. La natura non scalfibile né inquinabile della sua indicazione è sorretta non solo dalla semantica concettuale ma perfino dalla veste espressiva che si sostiene incisiva e inalterabile sia con la ruvidezza del linguaggio popolareggiante dei vv127-129 sia attraverso il ripetuto richiamo agli elementi vitali e indomabili della natura come il nutrimento  (vv131-2) e il vento 1333-35. Non si tratta soltanto di una rivendicazione solenne e di un recupero  di giustizia per Dante perché il suo discorso si allarga a tutta la missione dell’intellettuale rivolta al sostegno della verità per giungere al bene collettivo. E’ ovviamente qui  presente il sentimento ma anche la mente nella rocciosa convinzione indomata e indomabile della funzione dell’intellettuale che parlano con la voce di Cacciaguida ma con il cuore di Dante.

E’ a questo punto che sorge in noi lettori il pensiero di quanto  sarebbe utile per governanti e politici del nostro tempo così’ preoccupato di brevi ed effimeri consensi tenere a mente il severo dovere della verità da proclamare anche con sofferenza nella visione del vero BENE COMUNE.  E questo anche in  una proiezione spazio-temporale che vada oltre il cerchio della propria ombra e dei  propri passi sul cammino nel proprio spazio terreno  Qualcosa che forse permetterebbe  di evitare e sconfiggere le capziose e ipocrite, oltre che dannose (in primis per il popolo stesso )debolezze dei populismi attuali .