Amarcord

Amarcord

Vengo da una patriarcale, numerosa famiglia di mezzadri; il capo era lo zio Oreste e quando nacqui – ultimo della mia generazione – eravamo in quattordici. La mia prima lingua, come per tanti miei coetanei, fu naturalmente il dialetto; sentivo parlare in italiano soltanto durante le noiose prediche della messa “ranne (grande)“, alla quale mia madre mi conduceva. Mi torna, tra i ricordi, la terminologia in uso nella cura degli animali, i bovini in particolare. Penso a “lu juve”, che non era la famosa squadra di calcio, ma semplicemente il giogo, alla brusca e alla striglia, alle “fenette”, ovvero le redini, le cordicelle del giogo. Questo vocabolo trae origine da “fune”, come anche “fenicchio”, una corda di grosso calibro, resistentissima.

Le vacche, di razza marchigiana, erano un capitale prezioso per i contadini (e per i padroni), in quanto forza motrice ed in qualità di mamme delle future generazioni. Alcuni agricoltori, pochi, avevano anche le frisone da latte, che venivano dette “vacche mungane” (da mungere). I vitelli venivano denominati – dalle mie parti ed a seconda della loro età – “lattoni” quando bevevano ancora il latte materno o, più grandicelli, “palluti”, probabilmente perché cominciavano a sviluppare i loro organi sessuali, ma anche, forse, in relazione alla rotondità del loro ventre. Le femmine erano “le jenghe”, alias le giovenche.

Ricordo che mio zio Pasquale – che sovrintendeva sulla stalla ed era detto per questo “lu befogge” (il bifolco) – divideva il bestiame in due categorie: “màngele”, ovvero mansueto, e “sufìsteche”, cioè irrequieto. Del primo gruppo non faceva sicuramente parte ze’ Laurina, la moglie, col suo caratterino😂. “Màngele” viene dal latino “mansus”, che significa mansueto, docile; ammansire significa addomesticare, domare. “Sufìsteche” deriva dal tardo latino “sophistĭcus” (sofistico). Questo non significa che i bovini aderivano alla nota corrente filosofica😂, ma, molto più pedestremente, perché avevano un comportamento alquanto “alterato”. Guardavo ammirato lo zio sovrapporre il giogo sul collo delle vacche [prima avevamo avuto anche un paio di buoi (“li vuve”), che io però, piccolo com’ero, non ricordo]. Operazione laboriosa, complicata ai miei occhi, un labirinto di corna e cordicelle. Aveva una sua sacralità, era quasi un rito. Mi chiedevo se, una volta cresciuto, sarei stato in grado di ripetere quei gesti. Ma va’. Poi lo zio se ne andava con il carro, seguito dal fedelissimo Giorgio, uno dei nostri due cani, che era fulvo, bello come un moderno “golden retriever”.

Siccome un ricordo tira l’altro come le ciliegie, mi viene in mente un altro termine, mai più sentito: “rascianite”, che in famiglia veniva attribuito ai vitelli che stentavano a crescere, ma anche ai bambini che mangiavano poco. L’aggettivo era molto diffuso ed identificava per la sua magrezza un mio vecchio conoscente ormai deceduto, che questo soprannome se l’è portato per tutta l’esistenza. Il vocabolo – che discende da “ragia”, tardo latino “rasia” (resina) – identifica il tartaro che si forma all’interno delle botti. Da qui, per assimilazione, l’aggettivo “rascianite”.

Per concludere vorrei spezzare una lancia in favore della famiglia patriarcale, attualmente molto discussa – per motivi per lo più condivisibili – nell’ambito dei recenti, tragici fatti di cronaca, in quanto assimilata al maschilismo imperante nel passato. Io devo dire che la mia vecchia famiglia mi fa ricordare, fatte a mia volta alcune riserve, un periodo ovattato, molto felice della mia vita, tra i migliori. Lungi da me, ovviamente, fare della sociologia. Non sarei in grado.