Dialettica tra amore e giustizia in Paul Ricoeur

 

ABSTRACT

L’attualità del pensiero filosofico politico di P. Ricoeur sta nel suo tenace sostegno alla necessità di ricollegare etica e politica. Egli intende salvaguardare l’autonomia del politico, senza perdere di vista  la necessità di gettare un ponte con l’etica della vita buona. Nessuno più di noi oggi può apprezzare il suo impegno  mentre assistiamo alla diffusione di fenomeni di corruzione  e alle perverse conseguenze del divorzio tra la sfera dei principi morali e la concreta azione pratico politica. La scelta di orientare eticamente la politica torna ad essere una  priorità, ma Ricoeur mantiene la distinzione: l’etica non si confonde con la politica, ma la contesta, la mette in questione, smascherandone talvolta la violenza, animandone talaltra la tensione a rimettere al centro la persona. L’etica dunque “problematizza” la politica sfidandola al confronto con l’utopia della vita buona. 

Non tutte le relazioni che si intrattengono nella società complessa raggiungono la qualità dell’amicizia, figura paradigmatica di rapporti interpersonali animati dalla sollecitudine e dalla reciprocità, dunque rispettosi della uguaglianza e della differenza[1]. Le pos­sibilità che la persona ha di far emergere lo spessore umano dell’amicizia dallo sfondo anonimo delle istituzioni sono inevitabilmente limitate. Eppure l’esigenza di giustizia è universale e deve andare oltre l’amicizia se vuole estendersi ai tanti tu senza volto che costruiscono la convivenza sociale e che solo l’istituzione può raggiungere.  La ricerca di eticità nelle istituzioni persegue  una ragione propria, un metro di giudizio caratterizzato anch’esso da intenzionalità etica, ma mirato verso un’esigenza di eguaglianza distinta dalla sollecitudine interpersonale dell’amicizia. Perciò Ricoeur dà risalto al terzo punto del tripode etico: stima di sé, sollecitudine per l’altro e aspirazione a vivere in istituzioni giuste nelle quali i rapporti tra gli uomini siano strutturati e regolati in modo da ridurre l’ingiustizia e favorire una convivenza felice.

Non si tratta solo di raffinare l’ambito giuridico, impotente a coprire il senso più ampio dell’istituzione. L’esigenza di giustizia abbraccia tutto l’ambito politico, nel quale l’altro non è solo il tu, ma anche lo sconosciuto, il  lontano, il diverso. La persona  tramite le istituzioni di distribuzione delle risorse (risorse: diritti e doveri, guadagni e patrimoni, responsabilità e poteri, vantaggi e svantaggi) assume un’obbligazione non solo nei confronti  di chi può incontrare faccia a faccia, anche nei confronti dei tanti tu con cui non stabilirà mai una relazione d’amicizia.

Se la  sollecitudine è compito etico di tutto il genere umano, quella rivolta al “ciascuno”  riguarda in particolare i politici, la cui azione si rivolge proprio a vantaggio di quei tu senza volto e senza nome, quegli anonimi che sfuggono alle reti dell’amicizia, ma per i quali essi assumono l’impegno a migliorare la qualità della vita, secondo i criteri dell’equa ripartizione impersonale delle risorse. Ricoeur sottolinea così l’intimo, indisgiungibile nesso  tra il comportamento del singolo e il quadro delle istituzioni, senza il cui soccorso non è possibile realizzare l’aspirazione alla felicità come vita buona, insieme e per gli altri a meno di non rinchiudersi nello spiritualismo comunitari sta delle “anime belle”. Politica ed etica si integrano perché entrambe animate dalla medesima aspirazione alla giustizia, realizzata con modalità differenti.

Come non è bene amplificare l’importanza delle relazioni interpersonali sottovalutando le istituzioni, così non è bene sopravvalutare le istituzioni. Ricoeur ha denunciato i limiti riduzionisti del concetto di giustizia, quando s’identifica con il diritto, trascura il tessuto vivente in cui si costruisce la società e di fatto tollera l’ingiustizia o la riduce di poco. Il diritto si serve delle punizioni, secondo modelli puramente repressivi i quali producono l’effetto contrario, visto che le prigioni diventano spesso delle vere e proprie scuole del crimine. Il criminale è sempre una persone  e,  per quanto possa essere considerato abietto il suo crimine, va rispettata nella sua umanità. Come già sosteneva  Cesare Beccaria,  si dovrebbe ricorrere alla punizione solo come   mezzo di educazione, eliminando il più possibile l’idea di espiazione. Qui si incontrano le aporie della declinazione di amore e giustizia.

Quanti sono schiacciati da intollerabili deviazioni e  trasgressioni reclamano giustamente l’uso della forza per contrastarle. Ma ciò significa ammettere il fallimento della società: riconoscere che la convivenza può funzionare solo grazie all’uso della forza, alle punizioni e che non si riesce a realizzare il  “vivere bene insieme”, ossia l’eterna utopia della città ideale. L’amore è indispensabile iniezione creativa della società, che sa percorrere altre vie  e forme   diverse dalla reclusione, basate sulla cura, sul  lavoro sociale…

Molto dipende dal fatto che l’idea di giustizia è troppo legata alla proprietà, ciò che è mio o tuo e dunque contiene un limite nella misura in cui non mira a realizzare la comunità, ma semplicemente, come aveva visto Kant, la coesistenza.  Se si assume un’idea più ampia di giustizia si opera invece per costruire una convivenza   conviviale, giacché non è possibile alcuna comunità se le differenze sono eccessive  e lo scarto tra ricchi e poveri (in senso ampia) genera  svantaggiati ed emarginati.

La questione che pone di Ricoeur sulla giustizia si pone dunque in questi termini: può l’agire politico risolvere i complessi problemi di sua pertinenza?   La politica, le istituzioni,   la società vengono viste specialmente dall’ultimo Ricoeur come fragili e dunque bisognose di  risposte di responsabilità. Mentre per gli antichi il tragico tendeva ad escludere la speranza a causa del posto occupato dalla fatalità, poiché un eroe prendeva dolorosamente coscienza del destino che pesava sulla sua vita e compiva sforzi vani   per allontanare un esito disastroso, nella prospettiva di Ricoeur il fragile chiama ad un surplus di umanità e alla  responsabilità della cura nell’orizzonte della speranza.

Il   fragile è innanzitutto qualcuno affidato alle nostre cure: ne siamo caricati, conta su di noi,  attende il nostro aiuto e le nostre cure; confida nel fatto che noi lo aiuteremo. Questo legame di fiducia è fondamentale perché ci consente di incontrare l’altro e dare corpo all’esigenza di giustizia prima del sospetto e dell’imperativo categorico. Nel rapporto con il fragile si vede la differenza rispetto ad un concetto di responsabilità più tradizionale, che consiste nell’indicare sé stessi come gli autori dei propri atti. La responsabilità vista dal punto di vista di qualcuno o qualcosa che è fragile. L’amore non è una virtù etica;  è sovra-etica e attiene alla  dimensione poetica che è l’anima del vivere bene insieme.

Ricoeur fa riferimenti precisi alla tradizione cristiana e alla Bibbia, alle Beatitudini e all’Inno all’amore dell’Epistola ai Corinzi come espressioni che dicono poeticamente l’amore, alla figura del Servitore Sofferente nel Secondo Libro di Isaia, ai paradossi delle Parabole di Gesù, all’impossibile invito ad amare i nemici nel Discorso della Montagna….  Tutte le volte che l’agire umano sovrasta la giustizia come diritto e dà esempio dei paradossi dell’amor,e  la logica della sovrabbondanza supera quella della equivalenza della giustizia, pur senza rigettarla. Il discorso sull’etica va oltre le interpretazioni filosofiche della storia e si gioca attorno alla dialettica dell’amore e della giustizia, per poter fondare la speranza di una vita migliore sulle testimonianze, i comportamenti, le espressioni poetiche dell’agire.

E’ all’amore e non al senso della storia che Ricoeur lega la speranza di una vita buona per tutti, confidando che lo straordinario dell’amore penetri  lentamente l’ordinario della giustizia. E’ questa la rivoluzione che scombina i piani della ragione dietro l’impellenza dell’interrogativo che pongono le Parabole: come disorientare l’azione allo scopo di riorientarla?

Concludo con ciò che ci disse Ricoeur in occasione del IV congresso neopersonalista a Teramo (1993): “Infine, che cosa spero? (e qui parlo da un punto di vista assolutamente personale). Spero che ci siano sempre poeti che dicano l’amore poeticamente; esseri eccezionali che gli rendano testimonianza poeticamente; ma anche orecchie comuni che ascoltino e tentino di metterlo in pratica. Ecco ciò che spero, senza garanzie o assicurazioni”[2].


[1] Cf G. P. Di Nicola, Uguaglianza e differenza, Città Nuova, Roma 1998.

[2] P. Ricoeur, Persona, comunità, istituzioni (a cura di A. Danese), ECP, Firenze 1994, p.121. Cf anche P. Ricoeur, Le sfide e le speranze del nostro comune futuro, “Prospettiva Persona”,n.4 (1993), pp. 7-16.