Dalle nostre parti chi non ricorda, tra le persone di una certa età, Takimiri ed il suo circo? Servirebbe la magia e l’arte poetica di un Charlie Chaplin o di un Federico Fellini per narrarne.
Era marchigiano adottivo Takimiri, essendo nato a Buenos Aires, e si chiamava Antonio Taddei. Arrivava, ai primi degli anni cinquanta, nei paesi lungo la costa, da principio ancora senza il tendone. Da noi il suo circo si collocava all’inizio dell’antica Via Andrea Bafile, nello spazio attiguo all’attuale campanile della chiesa, che ancora non era stato costruito, né c’era il palazzone che c’è ora. Ci si accalcava, nei limiti del possibile. Era un confronto amichevole tra la fame nostra e di quei tempi e la fame dei circensi, tra le famiglie che avevano pochissimi soldi per il biglietto e gli artisti che di quei soldi avevano grande bisogno.
Takimiri si era riciclato come clown dall’acrobata che era stato da giovane ed era abilissimo nel coinvolgere i bambini indigeni nei suoi spassosissimi giochi. Ed erano risate indimenticabili. Era talmente popolare, il nostro, che il suo nome, tra la gente, era divenuto un usatissimo sostantivo. Essere un Takimiri voleva dire essere funambolico, acrobatico. Anche a pallone il “Takimiri” era l’attaccante che sapeva “scartare” il difensore avversario, che quindi lo superava, non sempre, a forza di finte e controfinte. Questo giocatore normalmente era “innamorato” del pallone, non lo passava. Si diceva che una volta l’amico Diego M., rimproverato da un compagno con la solita frase “e passa ‘ssa palla”, desse questa risposta, divenuta poi famosa: “Non mi chiedere cose impossibili!”
Mannaggia ai ricordi.
- foto di Biagio Massaccesi