Eravamo contadine

Eravamo contadine

di Francesco Galiffa, Arsenio Edizioni, Te, 2021

La nuova fatica di ricerca storica di Francesco Galiffa, Eravamo contadine, ha avuto un prestigioso riconoscimento di validità al IX Premio dell’Editoria Abruzzese, sezione saggistica.

Il suo valore  e il suo spessore di qualità stanno non solo nel fatto che si tratta di un saggio storico frutto di un metodo scientifico di consultazione di documenti, di reperimento di fonti di ogni tipo, perfino orali oltre che scritte, ma anche nel suo essere  testimonianza di carattere antropologico, sociologico, culturale, linguistico.

E’ inoltre un’opera di memoria delle nostre radici agricolo-pastorali, dei ritmi di lavoro della campagna e dell’allevamento del bestiame, della fatica immane di uomini e donne che si dividevano i compiti ma che spesso collaboravano, della miseria della vita quotidiana soprattutto per i mezzadri , che a differenza dei proprietari del terreno, dovevano dividere tutti i prodotti con i padroni. La scuola era un miraggio per le bambine, che potevano frequentarla fino alla terza elementare perchè dopo  dovevano gia prepararsi ad un futuro di spose e mamme; andava meglio ai maschietti ma neanche tanto perchè c’era bisogno di braccia che aiutassero la famiglia.  Aggiungiamo la durezza a volte ostile di una natura che non sempre ripagava gli sforzi fatti, per l’aleatorio andamento delle condizioni atmosferiche che con un evento avverso in un attimo potevano distruggere il lento e paziente lavoro di preparazione finalizzato alla produzione. Una natura non sempre felix e bucolica, dunque, ma anche e soprattutto georgica e di travaglio, entrambe di virgiliana memoria, e talvolta matrigna come  nell’opera leopardiana .

Tutto questo rivive nei racconti di 25 “testimoni”, come le definisce l’autore, donne oggi novantenni che da una realtà rurale e patriarcale prebellica sono transitate, attraverso la tragedia della guerra in cui si sono trovate  capofamiglia, ad una società post bellica di  trasformazione in artigianale, commerciale ed industriale, in cui molte di esse si sono emancipate dalla condizione di schiavitù agricola ad una diversa fisionomia di operaie, commercianti o imprenditrici socie dei mariti, o semplicemente di casalinghe.

Certo, le loro narrazioni rievocano anche momenti di svago, di giochi, di feste, di balli e pranzi nei giorni recurdative, di evasioni e intrattenimenti non costosi perchè tutti erano abituati a divertirsi con poco, perfino con le derisioni, gli scherni e gli scherzi reciproci. Storie positive, addirittura edificanti, sono quelle di aiuto reciproco (lu descagne), di solidarietà tra famiglie, addirittura di fraternità a prescindere dai legami parentali. “Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale” , osservava Carlo Levi. Da qui i valori positivi del mos maiorum tramandati di padre in figlio, quelli esaltati dalla teodicea del lavoro della campagna nelle Georgiche di Virgilio, dove la fatica dei campi non è più una punizione di Saturno ma un dono di Giove per distogliere gli uomini dai vizi dell’ozio e volgerli alle virtù dell’impegno. Gli stessi valori proposti dalla concezione etica del lavoro nelle Opere e i giorni di Esiodo.

Di grande interesse quest’opera, infine, per la memoria di termini dialettali che vengono trascritti così come le donne li pronunciano, con la corrispondente traduzione italiana per chi non li capisse, da un autore che si fa solo intermediario tra la narrazione e la scrittura, senza commentare e intervenire in prima persona con i suoi giudizi. E’ quello che nelle tecniche narratologiche si definisce narratore di grado zero, cioè che scompare, che tende ad annullarsi per farsi semplice regista e tecnico di un suono a più voci. Opera polifonica, collettiva, questa, una storia che sembra farsi da sè ed autoraccontarsi.

Pregevole dal punto di vista linguistico per me, che sono una cultrice del dialetto, la nostra lingua materna e la nostra radice, come direbbe Dante, anche se il dialetto neretese è leggermente diverso rispetto a quello teramano, che è il mio.

Pregevole per me anche dal punto di vista affettivo-sentimentale, perchè le mie radici sono nella campagna teramana  e nelle pagine di Eravamo contadine ho rivissuto le atmosfere e le attività del passato, le emozioni provate attraverso i racconti di mia madre, che è scomparsa l’anno scorso a 95 anni, l’età delle nonnine testimoni.