All’ombra del Principe

All’ombra del Principe

di Attilio Danese, Rubbettino Editore, 2018

Da quattro anni medito una riflessione su questa poderosa pubblicazione dall’argomento politico trattato in forma filosofica che ripercorre la storia del pensiero in senso diacronico dalle origini a Machiavelli, per poi argomentare sulla corruzione della democrazia di oggi. Erano diversi i motivi che mi scoraggiavano dall’impresa ardua : la voluminosità dell’opera (circa 500 pagg ), la difficoltà della materia trattata da un professore universitario di Filosofia politica (Attilio Danese è stato docente di Filosofia Politica all’Università di Teramo e in altre sedi), la trattazione “tecnica”di uno studioso competente in materia con continue citazioni rigorose di fonti che ne fanno un’opera “scientifica”, la mia labile competenza sia in campo politico sia in materia filosofica. Premetto allora che il mio discorso è di natura prettamente storico-letteraria, in linea con il mio insegnamento di materie classiche. Mi hanno spinta l’attualità dell’argomento in seguito all’invasione dell’Ucraina, la mia curiosità culturale e il continuo desiderio di apprendere ancora, il fascino esercitato dalla lettura di pensatori sempre attuali come Platone, Aristotele, Polibio, Cicerone, Tacito, S.Agostino, Machiavelli, Gramsci, risuscitati e vivificati dalle numerose citazioni dell’autore.

Determinante è stato il suo invito, nella premessa, a iniziare la lettura dalla seconda parte dell’opera per poi tornare indietro : Il testo si divide in due parti, di cui la seconda andrebbe forse letta per prima, perchè, disegnando il quadro della contemporaneità, sollecita a cercarne le radici. (pag.7)

E mai come nel nostro tempo così complesso, caratterizzato da contraddizioni e comportamenti ossimorici che però presentano tutto come Verità, sia la realtà oggettiva sia la fake news frutto di invenzione sia la distorsione mistificatoria del reale, è necessario risalire alle cause degli eventi. Tucidide, nell’analisi dei fatti storici, distingueva la pròfasis che è la causa immediata come si presenta alla nostra attenzione, e l’aitìa che è la causa remota e più utile nell’illuminarci sul presente e sulla sua valutazione. Un procedimento ancora oggi valido, non per risuscitare l’antichità ormai superata ma per impossessarci di uno strumento di indagine sempre valido nella metodologia di ricerca. Ne abbiamo tanto più bisogno quanto più siamo immersi in un flusso di parvenze, di valori evanescenti che tendono a scomparire, di legami “liquidi”come li definisce Baumann, sia sul piano personale affettivo sia su quello sociale e politico. Le democrazie tendono a trascolorare in oligarchie malate o in sovranismi liberticidi o in dittature tiranniche perchè indebolite dalla corruzione dilagante e dilaniate da  sistemi mafiosi e massonici. Voti di scambio e cambio di tuniche per interessi personali e arricchimento privato sono ormai così diffusi da non generare più indignazione, in un caleidoscopio di programmi intercambiabili e metamorfosi delle proprie posizioni. La labilità delle ideologie e la precarietà lavorativa ed esistenziale favoriscono la diffusione di dipendenze come droghe e alcool che a loro volta portano a debolezze psicologiche e psichiatriche.

Dai mali della democrazia sfigurata, come la definisce Danese, è nata l’attuale post politica o antipolitica, che si manifesta con la partecipazione passiva del cittadino, non più rappresentato nella sua ideologia e nei suoi valori, oppure con la rivolta muta dell’astensione dal voto. Ma questo non fa che peggiorare la democrazia che, non più attiva e partecipativa, favorisce i populismi e il trionfo di una cultura che promuove l’individuo egoista e consumatore (di medicine, sacramenti, spettacoli, beni, figli in provetta, sesso), incapace di porsi dei limiti e di spendersi per istanze superiori alla propria soggettività, pigro e incapace di pensare (pag.402). E’ come un circolo vizioso in cui si torna al punto di partenza e i mass media sempre più tecnologici favoriscono l’omologazione del pensiero e quella mutazione antropologica di cui già 50 anni fa Pasolini denunciava i sintomi.

Ritornano ciclicamente nella storia queste degenerazioni delle democrazie in oligarchie e poi tirannidi, descritte da Polibio tra i greci e riprese da Cicerone tra i latini. Partendo dalla riproposizione del valore polibiano della Costituzione mista, anche Marco Tullio Cicerone esalta la razionalità della politica…da potenziare attraverso un’adeguata azione educativa (pag.99): l’azione educativa di cui parla Cicerone ha una dimensione etica perchè è ispirata alla virtù. Nel De Republica, la sua opera politica più importante, è affermato con chiarezza che il potere necessita di un consensus iuris e deve fondarsi sul vincolo della legge, per mirare alla concordia ordinum (concordia degli ordini, senatorio ed equestre). Il grande oratore latino, riguardo alle tre forme di governo e alla loro corruzione, desunte da Polibio (monarchia, aristocrazia e democrazia), auspica la possibilità di un princeps che ponga in equilibrio i tre regimi, che però deve essere un un moderator e un rector rei publicae, un optimus civis pieno di saggezza e di competenza per salvaguardare l’interesse e la dignità dei cittadini . (pag.102). Ma di fronte alle guerre civili Cicerone è costernato e l’ideale crolla : Cesare prima e poi Augusto con l’impero accentreranno il potere nelle loro mani e il rector si trasforma in princeps nel senso machiavellico.

Machiavelli è il nodo cruciale verso cui converge la trattazione della politica precedente e da cui si snoda quella successiva, moderna e contemporanea. “Il filo di Arianna”si dipana attraverso due filoni principali, l’uno idealistico espresso soprattutto da Platone e poi confluito, attraverso il Cristianesimo e S.Agostino, in Erasmo e negli utopisti veri e propri come Tommaso Moro, l’altro realistico, espresso soprattutto da Aristotele e poi confluito, attraverso Cicerone e Tacito, in Machiavelli. Entrambi i percorsi sono accomunati dalla ricerca intorno alla relazione politica- etica, viste come interdipendenti o autonome ma sempre dialetticamente rapportate. A mio avviso infatti anche Machiavelli, che è considerato il fondatore della politica come scienza autonoma dalla morale, in realtà non la annulla ma la svincola dalla subordinazione alla religione, che pure ritiene importante come instrumentum regni, per tenere uniti i cittadini di uno Stato. La morale del principato delineato dallo scrittore fiorentino sarà quella interna allo Stato e incarnata dalle virtù del princeps, che sono soprattutte politiche perchè mirano alla conquista del potere e al mantenimento dell’ordine per il bene del popolo, e sono quelle umane delle leggi, cioè la razionalità, e quelle bestiali della golpe e del lione, cioè l’astuzia e la forza. Machiavelli però ci dice anche che il principe deve possedere nello stesso tempo le virtù considerate positive dalla morale tradizionale religiosa perchè sarebbe laudabilissima cosa poterle usare, ma poichè la natura umana è malvagia e non consente di farlo sempre, deve avere l’intelligenza di capire quando è necessario agire con la forza per felicitare e quando ne deriverebbe invece la sua ruina, e con essa quella dello Stato. Sarebbe inoltre un bene farsi amare dal popolo, o se non è possibile, almeno non farsi odiare e comunque farsi temere e rispettare. La virtù politica è infatti una sintesi di intelligenza delle situazioni, di forza per piegare gli eventi a proprio favore ma anche di fortuna, vox media latina per indicare il concorso di eventi e la sorte. Il modello esemplare di principe che ha saputo ottenere e mantenere un principato, infatti, Cesare Borgia, presentava tutte queste virtù ma ruinò per una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna, la stessa che mandò lui in esilio.

Ad ogni modo, credo che nella valutazione politica del Principe di Machiavelli la critica letteraria abbia tenuto poco conto del fatto che il potere di un uomo forte doveva essere solo un momento di trnsizione dalla democrazia degenerata che aveva favorito le guerre civili al ritorno all’ordine repubblicano, il sistema di governo da lui privilegiato, come si desume dai Discorsi sulla prima deca di Tito Livio.

 Nella rilettura che ne ha fatto Gramsci e nella sua interpretazione, il principe diventa il partito, che con il concetto di egemonia culturale fa un passo avanti rispetto alla sola logica della forza. (pag.262) La filosofia della praxis deve diffondere una cultura a carattere popolare, una cultura organica, che permei l’intera società. (pag.273)

Voglio aggiungere che nell’Ottocento è circolata anche un’interpretazione “obliqua” del Principe nel senso che Machiavelli, temprando lo scetto ai regnatori, / gli allor ne sfronda e alle genti svela / di che lacrime grondi e di che sangue, di cui si fa portavoce Foscolo. (I Sepolcri, vv 155/157)

E oggi, quale via d’uscita proporre a questa democrazia sfigurata? L’autore fa riferimento più volte al pensiero di Simon Weil e cita spesso filosofi “personalisti”, soprattutto Mounier (l’educazione deve preparare il terreno…elaborare una formazione dell’uomo totale”, pag 322) e Ricoeur (E’ il bisogno di dare un senso all’impegno del cittadino ragionevole e responsabile che esige che noi siamo bene attenti alle intersezioni tra etica e politica…pag.382).

L’unica via possibile dunque, per Danese, è  l’etica personalista, che nel mettere al centro la persona, restituisce il senso all’agire umano e  politico, quel filo d’Arianna che valorizza il senso di responsabilità dei suoi atti politici, della sua intelligenza, della capacità di dare corpo…a quegli “universali”…mai realizzati nè realizzabili per decreto : pace, solidarietà, uguaglianza sociale, dignità di ogni persona. (pag.385)