Sergio Rosa, una vita spesa nella ricerca

Il dialetto, lingua del popolo

 Sergio Rosa si è spento nel settembre scorso, all’età di 83 anni. È sempre vissuto a Castelli, suo paese natale. Laureato in Pedagogia, è stato insegnante e dirigente scolastico. Personaggio antieroico, sdrammatizzante, capace di tutto fuorché di esaltarsi e di ricorrere alla retorica. Lo possiamo definire un signore nascosto dentro un inalterabile aspetto dimesso. Ha pubblicato una serie di opere di pedagogia, tra cui: Dal bisogno di certezza al bisogno di accettare l’incertezza (1995); Il dono dell’autorialità (2001); Pedagogia della Riforma cattolica. Silvio Antoniano e l’educazione dei ‘figliuoli’ (2004). Ma anche opere dedicate alla realtà castellana, tra cui: I maestri della maiolica castellana: Rinaldo Pardi (1967); Nella bottega di Carlo Antonio Grue (2010); Pedagogia del vasaio (2016). L’ultima sua fatica su Castelli risale al 2020ed è Li Castille, Dizionario dialettale grafico e fonetico. Il Dizionario è stato presentato sabato 4 febbraio, a Teramo, nel salone della Scuola San Giorgio, gremita d’insegnanti, di autorità scolastiche, di gente comune, di tanti castellani.  

  Sergio ha lavorato per anni a questo dizionario, approfittando degli spazi di tempo frapposti fra la stesura di un libro e l’altro. Del resto, per redigere un dizionario dialettale, occorre, innanzitutto, un forte radicamento territoriale. E, per amare il proprio dialetto, devi averlo appreso per socializzazione primaria con il latte materno. C’è bisogno, inoltre, di un’infinita pazienza analitica e di una particolare competenza filologica, in grado di rinvenire l’origine di un vocabolo.

  L’annosa fatica di Sergio Rosa possiede soprattutto due meriti. Primo, quello di polarizzare l’attenzione sul dialetto, una parlata che si va estinguendo di giorno in giorno, ed è carica, come tutti gli idiomi popolari, della saggezza stratificata di un popolo. Secondo, chi si accosta a questo dizionario si rende conto che anche le parole più originali e strane di un dialetto hanno sempre un’origine nobile. Provengono dal latino, dal greco, o addirittura, dalle antiche lingue indoeuropee.

  Perché tanta passione per l’idioma castellano? Perché, risponderebbe Sergio, il dialetto è la lingua del popolo, la più adatta ad esprimere stati d’animo, sentimenti ed emozioni. Tanto che qualcuno lo definisce ‘lingua interiore’, ‘lingua intima’, ‘lingua dell’anima’. Forse, sarebbe più corretto chiamarla lingua ‘primordiale’, in quanto il dialetto possiede un vigoroso senso della realtà ed una forte tensione ad accettarla. Solo un dialetto è dotato di quella profonda ‘humanitas’ che permette di dire tutto, anche le cose più imbarazzanti. Ne consegue che le parlate popolari non sono solo lingua dell’anima e dei sentimenti, ma anche degli istinti più bassi. Possiamo paragonarle ad una linea verticale che va dallo spirito alle pulsioni. “Il popolo – scrive Sergio Rosa – parla il dialetto come sua lingua principale perché si presta meglio ad esprimere, con linguaggio spontaneo, sfumature e situazioni particolari di un ambiente popolano che la lingua nazionale non rende e non riesce a rappresentare”.

  Il dialetto castellano appartiene al gruppo abruzzese dei dialetti adriatici. L’Abruzzo, dal punto di vista linguistico, non è unitario. I suoi dialetti, infatti, vanno distinti in due gruppi diversi. Uno è il dialetto sabino, che appartiene al gruppo linguistico dell’Italia centrale e riguarda il territorio aquilano, con esclusione della Marsica e della Valle Peligna. L’altro è il dialetto adriatico, che fa parte del gruppo dei dialetti alto meridionali, legati al napoletano ed al pugliese. Il tratto principale che contraddistingue i dialetti adriatici è l’affievolimento delle vocali finali, in particolare della ‘e’ che risulta muta. Mentre, nei dialetti sabini, le finali sono nette, spesso in ‘u’.

  Chiediamoci. I dialetti sono belli? Bisogna distinguere fra i messaggi contenuti nelle parole e l’intonazione dialettale. I messaggi esprimono una saggezza antica che merita il rispetto dovuto all’esperienza popolare. Ma, l’intonazione può essere più o meno gradevole a seconda di chi ascolta.

Luciano Verdone