Dialogo e autorità

«Ogni istituzione tende a modificare nel tempo il suo modo di esprimersi e anche di giustificarsi: al suo interno, anche il ruolo dell’autorità varia corrispondentemente al variare stesso dell’istituzione.» («La gioia del Vangelo nel cambio antropologico. La ricerca del senso e del valore etico dell’umano», P. Benanti)

Ne Il Personalismo Emmanuel Mounier espone la “teoria dell’impegno”, cioè l’importanza dell’azione che per incidere sulla vita pubblica necessita di un “polo politico” e un “polo profetico”: «L’uomo di azione completo è colui che porta in sé questa duplice polarità, e si destreggia fra un polo e l’altro, lottando, volta a volta, per assicurare l’autonomia e controllare la forza di ciascuno, e per trovare delle vie di comunicazione fra l’uno e l’altro».

Nelle nostre società individualiste viene sempre meno la responsabilità di saper e voler sostenere il dialogo che parte dall’ascolto dell’altro; questo ci conduce inevitabilmente ad appellarci sempre di più alle autorità forti affinché siano loro a risolvere, per nostro conto, fraintendimenti e conflitti e mantenere un ordine apparente con conseguente e pericoloso approdo alla frustrazione, al ripiegamento su se stessi. L’uomo postmoderno si libera da questo impegno personale o ritirandosi nell’indifferenza o chiudendosi a difesa dei propri interessi o infine adeguandosi all’intesa proposta dall’altro. Per vincere l’indifferenza e la tendenza a imporre gli interessi individuali è necessario “uscire da sé” e superare quella ossessione del sogno di una certa pericolosa unanimità.

Il teologo gesuita Christoph Theobald in Ritrovare l’intesa. Dialogo e autorità tra società e chiesa ci offre una riflessione interessante; l’autorità deve far riferimento a tre criteri fondamentali:

  • la coerenza o autenticità;
  • la capacità di empatia;
  • la libertà nei confronti di se stessa, cioè il decentramento.

I primi due criteri si collocano sul piano etico, mentre il terzo sul piano meta-etico. E quest’ultimo ci conduce verso due nuovi criteri di credibilità: quello sapienziale e quello profetico. Porsi all’ascolto di tutte le voci, potersi autolimitare è «a vantaggio del dialogo che manifesta la sua forza specifica: è precisamente in forza di questa capacità di voler far crescere la vita comune nella diversità dei partecipanti o membri di un gruppo o di una società che possiamo parlare qui di un “criterio sapienziale”» (pag. 44). Infine restando vigilanti nei confronti degli esclusi dal dialogo si concretizza il criterio di ordine profetico. «Questo criterio fondamentale è senza dubbio il più distante rispetto a ciò che caratterizza e legittima il potere di diritto […], i criteri di appartenenza» (pagg. 44-45).

L’ascolto è fondamentale per costruire un dialogo dell’accoglienza, un luogo nel quale la misericordia è riconoscimento dell’altro, capacità di farsi partecipi di dubbi, domande, di servire con sollecitudine e tenerezza. Il criterio sapienziale è dunque ascolto autentico che sa costruire dialogo tra le diverse competenze: scienza, tecnologia, arte, filosofia, teologia, per promuovere l’inclusione sociale, per creare nuove alleanze che sappiano lavorare per il bene comune, mettendo al centro la persona e il vivere sociale. Il criterio profetico passa per l’attenzione alle disuguaglianze, che nel nostro tempo si fanno sempre più presenti anche lì dove ci sembrava che mai si sarebbe oltrepassata la soglia di povertà spirituali e materiali.

Sette sono i pilastri dell’educazione secondo papa Francesco: educare è integrare, accogliere e celebrare le diversità, affrontare il cambiamento antropologico, l’inquietudine come motore educativo, la pedagogia della domanda, non maltrattare i limiti, vivere una fecondità generativa e familiare.

La famiglia, la scuola, le agenzie educative dialogando tra loro e passando per i criteri sapienziale e profetico possono guidare le nuove generazioni, accompagnarle nella crescita personale, scolastica e spirituale verso uno sviluppo fraterno e di amicizia sociale. Nella famiglia la responsabilità genitoriale richiede di lasciar occupare degli spazi di autonomia ai figli, accogliere con amore i loro successi e i loro fallimenti, saper valorizzare la persona, decentrarsi, facendosi solida ma discreta presenza.

Il criterio sapienziale e profetico passa per l’ascolto dei giovani, nella capacità di renderli partecipi al dialogo e di saper porre l’attenzione alle disuguaglianze che sembrano accrescersi evidenziando quali insidie possono nascondersi anche dietro il velocissimo sviluppo tecnologico. Per gli screenagers, ma perfino per gli adulti, i nuovi guru sono i big data, l’algoritmo, autorità che rivestono appunto una sorta di valore sacrale. Paolo Benanti chiama questa nuova religione degli argonauti digitali «dataismo» che non necessita di alcuna storia, perché si basa sui dati. È necessario saper cogliere i topoi culturali di questa epoca per orientarli verso più alte motivazioni, saper valorizzare responsabilmente la frammentarietà per ricondurla in un orizzonte olistico, ridare vigore alla capacità di attingere la verità nel superamento di una visione parziale e indifferente della realtà, occorrono flessibilità e umiltà nell’educare, autenticità e coerenza, “uscire da sé” ed empatia per trasmettere il gusto della conoscenza e i contenuti.

Le buone pratiche educative non omologano, sollecitano la partecipazione attiva di ogni soggetto, per “tirar fuori” risorse, valori, verità, sono le prassi dell’arte della maieutica socratica, quella delle levatrici, che aiutano a far partorire, per poter contribuire a sviluppare un umanesimo della vita, un umanesimo della persona nella sua totalità.