“La pazienza dei melograni”

“La pazienza dei melograni”

Alessandra Angelucci  – “La pazienza dei melograni”(Lit Edizioni, Roma, 2019). Raccolta di poesie prima classificata al XII concorso nazionale di Cologna spiaggia per la sezione Libri editi.

Ci si arriva dopo qualche pagina al testo che dà il titolo alla nuova raccolta di poesie di Alessandra Angelucci, forse per sottolineare che la ricerca dell’obiettivo è più arricchente spiritualmente se accade come andando a Serendipity, che mentre cerchi la cosa più significativa, scopri dei veri tesori. Così, per arrivare a leggere la lirica che cercavo per capire il senso di tutta la pubblicazione , mi sono imbattuta in gioielli pregni di significato nel loro ermetico fluire.

“Eppure se mi giro un poco io ti sento/e non c’è velo d’arancio rosso e fuoco/che possa dare pane a ciò che voglio/e non dico”, in incipit non a caso e non casuale certamente neanche quel titolo “Eppure”, che lascia intuire la ripresa di un discorso forse precedentemente interrotto;

“Una cosa che di certo il mare non ignora/è il desiderio ultimo di chi giunge a riva/e lo guarda attento di fremito in fremito”: seconda lirica dal titolo “Il mare”, fortemente evocativo e carico di simboli dai tempi di Omero, Dante, Foscolo, fino a Kavafis, Montale, Quasimodo…ma anche radicato nell’esperienza reale di chi sul mare ci abita e ne sente le voci con tutte le ripercussioni interiori, “davanti al simulacro della Madonna al porto”;

la terza, “Lascia che il caso”, rivolge un’invocazione al cielo per chiedere “Perdonami…se di tutto il firmamento scelgo solo una stella e un solo angolo”, dopo aver pregato un tu indeterminato di abbracciarla lasciando che il caso si fermi; seguono una terzina ed una quartina dedicate a Matera, dense di colori suoni immagini.

E finalmente, “Si snocciola fra le dita/la pazienza dei melograni/costellazioni di rossi infiniti/fra le braccia d’una sfumata buccia”con una chiusura didascalica: “Se c’è una cosa che la melagrana insegna/è questo lento spiluccare d’un pomo ‘sì bello/che tanto mi commuove /e tanto mi delizia”. Qui forse è da cogliere la poetica dell’autrice, ribadita nei versi finali della poesia successiva “…e la goccia cade ancora/per ricordare che lento è il tempo/per fare un mare/e anche l’amore”.

Amore nel suo finire e nel suo ricominciare, sentimento che travolge ma anche che spezza, la ferita dolorante che abbatte e il desiderio di reagire che fa drizzare di nuovo le vele “Ora che la vela è dritta /ora che sai che la bugia più grande/è quella di dirsi pronti a rinunciare/alla solitudine”, sebbene con la consapevolezza che in fondo la solitudine l’attrae. Lo afferma qui, dopo una serie di domande rivolte alla propria anima, alter-ego di un colloquio interiore in una solitudine che cerca però canali comunicativi nel tentativo di mutare il solipsismo in dialogo effettivo.

Il dialogo c’è in molte liriche, ma è fittizio, è stabilito con un “oggetto” indefinito del suo discorse, che forse è la persona amata o forse è il lettore di cui si cerca la condivisione o l’empatia. La percezione tragica dello scorrere del tempo che ci precipita in un vortice è un altro tema ricorrente che rende fraterni poeta e lettore “Come te lo dico che la vita è un soffio/stasera che il dolore s’è addormentato insieme ai fiori/e nel petto nessun tonfo assomiglia a quello di un sasso/lanciato in volo”.

Ma anche l’ipocrisia “Com’è difficile dire allo specchio/cosa siamo veramente/quando il trucco dei figuranti è sceso/buio sulla faccia di cera…”; la ricerca del coraggio “L’ultima volta che ho scritto/mi è piaciuta la parola coraggio/e m’è bastato il silenzio per capire” ; il desiderio di libertà insieme al recupero dell’innocenza e al perdono “ma se m’allontano da ciò che stringe/e faccio vuoto dove il pieno soffoca/mi perdono nel candore di una rinnovata levità”.

Condizioni che si possono conquistare con la fine di rapporti che ci fanno soffrire e ci preparano al nuovo, con una trasformazione di cui l’autrice avverte già gli esiti “Nello spazio di ciò che ero fiorisce l’altra e ciò che sono./Cedo al passo nuovo/e finalmente sgombro il tarlo”. Non è facile la comprensione dei testi di Alessandra Angelucci, a causa del linguaggio ermetico, a volte oscuro, ma mai compiaciuto o forzatamente artificioso nella ricerca dell’espressione originale.

L’originalità della sua poesia deriva da un uso artistico dello strumento linguistico, personalissimo ed evocativo, non da ghirigori o espedienti retorici. Il ritmo delle strofe, spesso terzine e quartine, ma anche qualche distico, accompagna e sottolinea il flusso delle immagini evocate con un andamento altalenante tra l’armonioso e lo scazonte, come un’onda che avvolge il lettore in una condivisione naturale.

Chi legge infatti, quasi certamente ha fatto esperienza delle situazioni e degli stati d’animo che lei descrive, compreso l’inganno di cui parla nella lirica “Lo diranno i poeti”: “Non resta altro che questo: /invocare i poeti/e affidare loro il canto dell’inganno”. Ai poeti è affidato il compito di cantare illusioni e inganni, l’eterno oscillare tra l’amore e l’odio, il procedere ondivago tra i marosi dell’esistenza. “A noi non resta altro da fare/accettare che le ruspe portino via/città sepolte/girare l’angolo e trovare cave di rifiuti”