La problematica visione della giustizia nelle tragedie di Eschilo

In una delle fasi storiche più evidenti di cambiamento di strutture socio-politiche che accompagnano l’evolversi della civiltà europea è la grandezza narrativa e poetica del tragediografo ateniese Eschilo a interpretare e segnalarci la complessità dei problemi e delle idee di fondo che sempre accompagnano e anche dirigono le svolte nel cammino umano. Nell’Atene delle battaglie vittoriose contro l’invasione persiana della Grecia, per le quali lo stesso poeta è stato non solo commentatore ma anche partecipe personalmente, l’evolversi dello stato verso la visione e strutturazione orizzontale delle istituzioni nella democrazia non fu solo un basilare cambiamento rispetto alla verticalità monarchica e aristocratica ma aprì la strada all’affermazione di quei nuovi gruppi sociali commercianti, artigiani e operatori sociali che avevano trovato slancio e opportunità nella crescente affermazione della vocazione marittima commerciale dell’Attica.

Lo scenario politico in Atene si ampliò progressivamente attraverso una serie di riforme istituzionali da Solone a Clistene fino ad Efialte, che permise una sempre più ampia partecipazione al governo della polis alle nuove classi sociali e, probabilmente, fu la leva più potente per far emergere quel senso collettivo di nazione che sarebbe poi stato sorprendentemente vincente nella competizione con l’invasore orientale persiano pur se impari per spiegamento di forze militari. Se una delle condizioni di questa affermazione non solo negli scontri militari ma anche nella potenza economica di Atene sembrò procedere trionfalmente e quasi inarrestabilmente è anche vero, però, che il cambiamento radicale degli antichi equilibri sociali e politici si estendeva con larghezza e ampiezza in una complessità che non solo produceva problemi ideologici e culturali ma imponeva la centralità di strumenti regolatori. Di conseguenza si affermò sempre più l’importanza della giustizia non solo nella sua organizzazione e apparato strumentale ma anche nel profondo della sua identità e funzione ideologica e culturale.

E’ allora innegabile il valore e, direi, il merito dell’azione culturale svolta dalla produzione teatrale di Eschilo all’interno della straordinaria azione di formazione popolare svolta dal teatro in Atene. Un’azione che non solo imponeva l’identità della Giustizia come valore sacrale ma ne esaminava tutta la complessità e anche le delicate ambivalenze. Anche oggi non si può del resto, non riconoscere che tutte le tragedie di Eschilo mettono al centro il problema della scelta o del rifiuto della giustizia, un problema non radicato prevalentemente nella psiche individuale ma soprattutto nel contesto storico culturale con tutto il suo corredo di scontri fra diverse culture, da quella del genos degli aristocratici a quella della polis dei cittadini, da quella della vendetta di sangue a quella di tutela dell’onore, da quella del desiderio di espansione dei potenti a quella del diritto di autonomia di ogni popolo, dalla negatività della hybris nella disobbedienza agli ordini divini all’eroismo della ribellione per la solidarietà verso gli uomini (Prometeo). Ed è certamente merito della grandezza creativa del poeta avere adoperato la acclarata potenza culturale e ideologica archetipica del mito senza disperderla in futili minuzie narrative ma rivolgendo nella potenza evocativa di idee e ideali lo sguardo poetico agli elementi portanti della condizione umana e incanalandoli nella forte incisività persuasiva della forma teatrale. E’ lì, proprio sulle gradinate del teatro di Dioniso al quale i cittadini di Atene potevano liberamente e gratuitamente accedere (perfino con il rimborso della giornata di lavoro perduta grazie alla politica culturale della polis democratica) che l’illuminazione di valori e comportamenti si poteva accendere di forti e produttive reazioni nella partecipazione emotiva tra suoni e azioni dello spettacolo teatrale dal quale partiva un impatto di sensibilità molto più forte ed esteso di quello svolto dalla recitazione dell’epos o dalla lettura della lirica.

Si poteva così compiere proprio con l’azione teatrale quella diffusa azione formativa che concesse alla potenza imperiale di Atene di resistere oltre le sue forze e di esercitarsi non solo come imperialismo ma come egemonia culturale ad ampia influenza, anche dopo il declino politico. Questo supporto non fu esercitato dagli spettacoli tragici con un’operazione solo celebrativa della polis democratica ma attraverso l’ampiezza creativa della riflessione poetica sugli elementi esistenziali nelle varietà contestuali. Eschilo ne illuminò le drammaticità anche nel momento di dialettica affermazione dei nuovi ordini democratici, e Sofocle con la stessa polisemia del linguaggio nel momento del massimo splendore della polis ne fece emergere la tragedia della ineliminabile sete di conoscenza dell’uomo nella sua eroica solitudine, mentre Euripide ne rivelò anche i nodi irrisolti della condizione umana dell’individuo e il declino delle ideologie tradizionali.

Per quanto riguarda Eschilo, comunque, la potenza evocativa anche nel suo linguaggio e nell’uso del mito ci consente di scorgere tutta la complessità della regolazione della condizione umana nei suoi rapporti orizzontali e verticali con società e divinità non solo negli ordinamenti ma nello stesso suo valore identificativo di divina Dike, la giustizia. Difatti nella inequivocabile religiosità eschilea la giustizia si presenta come focus dell’azione divina vista soprattutto come mantenimento e riparazione di ordine cosmico. Non si esaurisce, però, questa visione in una esaltazione puramente celebrativa ma posa uno sguardo attento sulla drammaticità del conflitto tra la antica religiosità ricca di forze oscure terrestri e la religiosità uranica dei nuovi dei vista come regolatrice di ordine con una nuova moralità che supera il tradizionale caleidoscopio avventuroso del mito. Di questo contrasto sono evidenti esempi anche le azioni e le figure delle Erinni che inseguono Oreste per punirlo del matricidio vendicatore. Tuttavia queste forze più disordinate nella loro azione fortemente emotiva e certamente legate ai miti più antichi della civiltà mediterranea della Grande Madre trovano nella poesia di Eschilo la regolazione e, in qualche modo, la pacificazione con il sereno e vincente intervento degli dei celesti garanti, a partire da Zeus, della Dike e dell’ordine contro le debolezze e perversioni umane.

Questo approdo rasserenante comunque non è solo una evoluzione di cultura mitico-narrativa ma una ricerca costante in Eschilo di una moralità più alta e razionale che travalichi gli impulsi disordinati delle passioni in un ordine universale capace di controllare e moderare l’azione umana spegnendo i fuochi devastatori dell’accecamento (Ate)di superbia e della aggressività (ubris ). Ce lo dicono la pacificazione – trasformazione delle Erinni in Eumenidi con l’azione moderatrice di Atena e di Apollo e l’istituzione del tribunale Areopago per giudicare i delitti di sangue ma anche l’appello, in Coefore, alle antiche Moire perché collaborino con Zeus nel ristabilire con la giustizia l’equilibrio universale. Si può considerare questa soluzione come una strumentalità culturale opportunistica per acquietare i contrasti e rafforzare i nuovi ordinamenti nella svolta di civiltà? A me pare che l’azione poetica di Eschilo sfugga completamente a questa restrizione ideale del panorama culturale che potrebbe mirare, magari, a spegnere in una comoda celebrazione le numerose drammaticità di questo passaggio di cultura e civiltà.

Numerose e altre sono invece nelle sue opere le drammaticità e anche ambivalenze della sua visione degli uomini e del mondo. Scorrendo velocemente i testi delle tragedie rimaste sorgono alla mente eventi e situazioni che, certo, innegabilmente testimoniano la vittoria rasserenatrice di Dike nel panorama conflittuale del mondo su continue violenze in azioni e sentimenti. Ecco quindi ne Le Supplici l’ambivalenza stessa del poeta verso le Danaidi nel rivelarne (in armonia del resto con la stessa posizione conservatrice della cultura sociale ateniese verso le donne) il disordine emotivo nella ribellione come forza eversiva disgregatrice ma, nello stesso tempo, il loro diritto all’accoglienza come profughe. E’ un contrasto che si cala e si riflette nella dilemmatica difficoltà del re argivo Pelasgo tra il dovere di salvaguardia della propria città e il dovere sacrale dell’ospitalità, un contrasto come sempre in Eschilo vissuto nella ideologia sociale più che nella psiche individuale. Allo stesso modo nella posizione di Eteocle, ne I sette contro Tebe, si agitano in lotta il dovere patriottico e il grumo affettivo e sofferente del clan famigliare in una posizione di eroica disposizione alla lotta mentre nella figura del sacerdote pacifista Anfiarao si misura e contrasta il disgusto per la guerra visibile anche nello scarno arredo di combattente con il dovere delle armi per la patria. Particolarmente evidente è la dilemmaticità dei contrasti sulla figura di Prometeo, in Prometeo incatenato, al punto da far individuare nella tragedia nuovi influssi culturali dalla sofistica, allorchè la stessa figura divina di Zeus viene quasi appannata di un velo di crudele autoritarismo nel confronto con l’umanesimo eroico di Prometeo. L’Orestea tutta poi è pervasa da uno scontro tra i legami di sangue e quelli sociali, e non solo nel dramma figliale di Oreste ma anche nella potenza della hubris stessa di Clitemnestra.

Particolarmente significativa, fondante e anche radicale mi appare questa visione travagliata ma ampia della condizione umana nella continuità di una sofferenza non solo causale ma quasi finalistico-provvidenziale, nel dolore che approda alla conoscenza. Un abbinamento che ha la forza di sottrarre l’uomo alla passività di puro strumento della giustizia divina mentre ne delinea una maturazione positiva con l’ascesa verso una più alta moralità sui faticosi gradini della sofferenza dilemmatica. E’ una visione a spettro ampio e anche sostanzialmente positiva che possiamo individuare già nei primordi della creazione drammatica del poeta ne I Persiani dove la celebrazione patriottica non si chiude in un orgoglioso e angusto sovranismo ma si apre, già con il focus narrativo sui sentimenti dolorosi degli sconfitti invasori, a una visione direi ecumenica dell’uomo. Si è portati allora a pensare che fu anche, forse, questo atteggiamento culturale a consentire all’antica Atene non solo l’affermazione di potere ma la permanenza dell’egemonia culturale per secoli.

Pensando all’oggi tutto questo mi appare malinconicamente distante dalle violenze ottuse dei poteri militari ed economici nella politica internazionale, dalle meschine trame di affermazioni particolari spesso tracimanti in beghe individuali e corporative dei politici attuali, dagli spesso futili chiacchiericci dei commentatori politici e anche dal silenzio, temo, apatico ed evasivo degli intellettuali di questo nostro opaco tempo presente.